Ci sono molte cose di cui oggi si dovrebbe parlare, del colloquio Trump – Putin di cui peraltro si hanno solo striminziti resoconti ufficiali o delle nuove stragi in Medio Oriente da parte dei sionisti di Tel Aviv e dei terroristi “moderati” siriani, tutte parti che l’Ue ha appoggiato entusiasticamente, mentre sembra molto depressa per ogni eventuale accordo sull’Ucraina e si prepara a sabotarlo. Ma per una volta voglio parlare dell’Italia dove la prospettiva di un’Europa bellicista ha rotto un’incantesimo che durava da tre decenni e che ha impedito qualsiasi evoluzione del pensiero politico, lasciando intatte le erme, i testi sacri, le parole d’ordine mentre la sinistra diventava sempre più neoliberista e la destra convergeva sul modello Wef, dietro la vernice di populismo corale. Tutto è rimasto fermo per trent’anni come se nulla fosse cambiato, mentre tutto ha subito una mutazione maligna: tuttavia la prospettiva del riarmo continentale che ci coinvolge in prima persona ha diradato la spessa cortina di nebbia sulla realtà. E ci accorgiamo di essere invecchiati e infelici, mentre, al contrario del ritratto di Dorian Gray, il “dipinto” politico – intellettuale è rimasto sempre lo stesso.
Dopo tanti appelli alla pace che la Ue avrebbe garantito ad onta dei numerosi conflitti cui ha partecipato, il fatto che ora essa voglia accanitamente la guerra e si opponga a qualsiasi possibile processo di pace basato sulla realtà degli eventi, ha incrinato le impalcature fisse del discorso pubblico, cosa che non era avvenuta nemmeno dopo i silenzi e gli assensi alle stragi di Gaza. La prima erma, il primo altarino a cadere nella infaticabile macina della storia, è oggi il celebre Manifesto di Ventotene di cui molte volte ho parlato come di un equivoco. Questa sorta di testo sacro dell’europeismo, che tutti onorano, ma che pochi hanno letto, pochissimi hanno capito e alcuni hanno fatto finta di non capire, è in effetti una sorta di ambiguo zibaldone che tra economicismi liberali e riferimenti socialisti, esprime l’idea di una unità europea per superare i pericoli della democrazia, distruggere le culture dei singoli Paesi in nome di un governo illuminato che è poi quello del capitalismo su masse di individui atomizzati. Infatti è bastato che la Meloni ne citasse alcuni brani, sia pure sia pure in un ambito di bassa polemica, per far gridare alla profanazione, mentre avrebbe dovuto essere apprezzata la lettura di brani da questa sorta di ave pater e gloria dell’unità continentale.
Parecchie volte mi è capitato di mettere in rilievo il carattere di feticcio di questo manifesto, anche solo per il fatto di essere stato costretto a leggerlo e a chiosarlo: era infatti uno dei testi di riferimento del primo esame dato all’Università e condito tra l’altro da una figuraccia sulla situazione nell’Atene di Pericle e lo scontro tra aquile guerrafondaie e colombe che io, trascinato dalla contemporaneità di allora, citai come falchi e colombe. Quindi ne conosco bene i passaggi e l’ambiguità di essere nato da tre persone (Colorni non compare come autore, ma fu partecipe dell’elaborazione del testo), profondamente diverse per cultura e formazione oscillanti tra liberalismo e socialismo che tuttavia convergevano nel rifiuto degli stati nazionali come responsabili delle guerre. Un vero pasticcio perché le dottrine liberali attribuivano la nascita dei sistemi totalitari alle politiche economiche e mercantilistiche dei vari Paesi, mentre quelle socialiste incolpavano di tutto questo e delle guerre che ne derivavano proprio il capitalismo come struttura. Ciò che scandalizzava Spinelli e Rossi – da punti di vista differenti – era il consenso ottenuto dai regimi fascisti e di qui l’idea di un federalismo europeo non ben definito, nel quale tuttavia il ruolo della democrazia rappresentativa era circondato dal sospetto e dal timore che essa venisse in qualche modo corrotta o deviata. Per cui, in definitiva, era bisognosa di un controllo politico dall’alto che avrebbe potuto essere garantito solo da una struttura di tipo oligarchico. Così alla fine il manifesto non è sostanzialmente molto diverso da altre elaborazioni nate dopo la prima guerra mondiale e basate sull’elitarismo economico come cemento continentale. Le diverse culture, ad onta della contiguità geografica, non contavano nulla dal punto di vista del capitalismo e di certe vulgate marxiste dove non si tiene conto che l’internazionalismo non è una base di partenza, ma un punto di arrivo e che l’emancipazione dallo sfruttamento può anche passare e di fatto deve passare attraverso lo stato nazionale o comunque le comunità culturali.
Questione complessa, ma tornando a bomba il Manifesto di Ventotene è un testo palesemente invecchiato, nato in un’epoca in cui il nostro continente aveva un peso ben diverso da quello di oggi e che tuttavia, nelle sue linee generali, rassomiglia alla struttura ideologica della Ue, fatta salva la scomparsa di qualsiasi elemento sociale e l’ossessivo riferimento al neoliberismo che esalta la messa in mora degli stati, nazionali o meno, anzi della politica stessa e la realizza con la moneta unica che è in possesso esclusivo del potere centralizzato. Così funziona ormai da almeno trent’anni, ma ecco che improvvisamente arriva la guerra e manda all’aria tutte queste teorizzazioni che sono state poste in una teca col vetro corazzato e mai davvero discusse, elaborate, contestate, come accade per tutte le idee vive. E quanti sacri testi, sacre immaginette, sacre frasi fatte, ognuno per la sua parte, ci portiamo dietro senza mai aver riflettuto davvero sul loro significato, sulle prospettive che aprono o che chiudono? Da troppo tempo l’elaborazione politica e intellettuale è come congelata, giace immobile nel freezer alimentato dai media e dalla loro ripetitività ipnotica o da interessi di bottega, da forme corruttive di ogni tipo, mentre le cose sono profondamente cambiate e i fallimenti, gli errori, le incomprensioni o gli inganni salgono spietatamente alla superficie. Dobbiamo scegliere: vogliamo sopravvivere in un museo o uscire all’aperto?
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