di Germana Leoni
Kabul, 16 agosto 2021: nient’altro che lo scontato epilogo di una pagina di storia scritta in un lontano febbraio 1989, quando il generale dell’Armata Rossa Boris Gromov attraversava simbolicamente a piedi l’Amu Darya: l’ultimo militare sovietico che lasciava l’Afghanistan!
Il paese sprofondava così in una sanguinosa guerra civile fra varie fazioni ed etnie, un conflitto che nel 1994 vedeva per la prima volta assurgere alla ribalta della cronaca una nuova generazione di combattenti islamisti: i talebani.
Erano i figli della jihad, emanazione di quegli stessi mujaheddin che negli anni ottanta avevano combattuto contro il sovietici per conto degli americani. Erano il “lumpenproletariat” afghano.
Conquistata Kabul nel 1996, avrebbero imposto al paese un regime del terrore con pochi precedenti: ma un terrore col quale Washington era ben disposta a scendere a patti. La posta in palio era un territorio strategico per il controllo e delle risorse energetiche dell’Eurasia.
E Washington iniziava segretamente a corteggiare i talebani in sostegno alla politica della Unocal, compagnia petrolifera che nell’ottobre 1995 aveva siglato col presidente turkmeno Saparmurat Niyazov un contratto per la costruzione del Trans Afghanistan Pipeline (Tap): una cerimonia supervisionata da Henry Kissinger, consulente Unocal d’eccezione1.
Si trattava della realizzazione di un gasdotto iniziale di 1400 Km che, dal Turkmenistan, avrebbe dovuto convogliare il gas delle repubbliche centro-asiatiche verso la città pakistana di Multan, per proseguire poi alla volta dell’India. Previsto per transitare attraverso Herat e Kandahar, il corridoio necessitava ora del consenso dei talebani che, ormai arbitri della guerra degli oleodotti, si trovavano catapultati nel Grande Gioco geopolitico delle superpotenze.
Nel 1997 due loro rappresentanti volavano in Texas per incontrare Zalmay Khalilzad, altro consulente Unocal che aveva servito nel dipartimento di Stato dell’era Reagan: un lobbista instancabile dei talebani. E l’anno successivo un altro emissario del mullah Omar era ospite d’onore a un ricevimento ufficiale dell’ambasciata statunitense di Islamabad2.
Il gasdotto apparentemente valeva tanto da legittimare un regime responsabile dei crimini più efferati; un regime brutale che ora ospitava in pianta stabile Osama bin Laden, per Washington il più pericoloso terrorista della storia.
Ma nel 1998 il negoziato saltava in seguito agli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam, che erano stati attribuiti al principe del terrore. Questa la motivazione ufficiale. Ma, dietro le quinte, pare che gli ex studenti coranici pretendessero dazi esorbitanti per consentire il passaggio della Tap sul territorio afghano.
I contatti riprendevano segretamente con l’insediamento di George W. Bush alla Casa Bianca. E nel marzo del 2001 Sayed Rahmatullah Hashemi, ambasciatore itinerante del mullah Omar, veniva ricevuto con tutti gli onori negli Stati Uniti. All’epoca i talebani avevano già fatto saltare in aria le millenarie statue dei Buddha di Bamiyan, e due mesi dopo ordinavano agli hindu di indossare, come marchio distintivo, un distintivo giallo: un macabro déjà-vu. Eppure….
Eppure i negoziati segreti proseguivano fino all’estate del 2001: un ultimo incontro a Berlino e la trattativa saltava3. Solo da allora i talebani diventavano una forza dell’asse del male.
In settembre saltavano anche le Torri gemelle e in ottobre iniziavano i bombardamenti sul paese: vent’anni di guerra, trilioni di dollari e un incalcolabile contributo in vite umane solo per tornare al punto di partenza? E Washington batteva in ritirata e lasciava il campo a cinesi e russi? Davvero?
Le premesse della débâcle statunitense risiedevano in un accordo siglato il 29 febbraio 2020 a Doha fra una delegazione statunitense e una talebana: un negoziato sul ritiro delle truppe, che di fatto legittimava il regime dei talebani e delegittimava il governo di Kabul, che non era presente al tavolo delle trattative.
Architetto del negoziato ancora Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore in Afghanistan e Iraq e, nel 2018, inviato speciale per la pace in Afghanistan: lo stesso diplomatico che oltre vent’anni prima aveva trattato coi talebani in veste di consulente Unocal.
All’epoca barattava un gasdotto contro un riconoscimento ufficiale dei talebani. E oggi lo concedeva in cambio di niente nell’Eldorado del futuro, in un paradiso di terre rare e preziosi metalli, tra cui il litio, essenziale per le transazioni energetiche globali?
Nel 2010 un rapporto interno del Pentagono definiva l’Afghanistan “l’Arabia Saudita del litio”. Ed è proprio in quell’anno che, dopo lunga latitanza, ufficiali statunitensi incontravano nuovamente a Monaco di Baviera un emissario dei talebani. Casuale?
Da partner a paria e poi nuovamente a partner? Da arbitri della guerra degli oleodotti a quella dei metalli rari? Quale altra tragedia per il popolo afghano?
1) Ahmed Rashid, Talebani, Feltrinelli, 2001.
2) Richard Labévière, Dollars for Terror, Algora Publishing, New York, 2000.
3) Jean Charles Brisard e Guillaume Dasquié, Bin Laden: La Vérité Interdite, Editions Denoel, Parigi, 2021.
Fin qui la nota di Germania Leoni che ospitiamo volentieri sul nostro sito, così come ci è stata inviata, dati gli spunti che offre sul complesso conflitto afghano. A conferma di quanto esposto, ci permettiamo di rimandare a un articolo del New York Times dal titolo: “Gli Stati Uniti identificano vaste ricchezze minerarie in Afghanistan”, nel quale si identifica l’Afghanistan come “l’Arabia Saudita del litio”, minerale essenziale per il futuro green.
Questo l’incipit dell’articolo: “Gli Stati Uniti hanno scoperto quasi 1 trilione di dollari in giacimenti minerari non sfruttati in Afghanistan, ben oltre qualsiasi riserva precedentemente nota e abbastanza da alterare radicalmente l’economia afgana e forse la stessa guerra afgana, secondo alti esponenti del governo americano”.
Fonte: https://piccolenote.ilgiornale.it