“Si sta come d’autunno…” Sì, tutti stiamo come foglie ingiallite, precariamente attaccate all’albero in attesa della folata che ci farà cadere ed è questa, forse, la ragione della fortuna che ha avuto questa poesia fulminante nell’era della memoria da pesci rossi. Lo possiamo percepire meglio ora che la storia e anche le nostre stesse storie sono uscite dall’ibernazione neoliberista, dall’eterno presente che esso ci propone, dall’assenza di memoria e dunque di futuro in cui eravamo immersi come se la vita fosse strisciare carte di credito per ottenere dosi di dopamina, inseguire tendenze che svaniscono da un giorno all’altro e misurare le nostre vite in clip virali ed “esperienze” fugaci. Tutto è stato travolto e macinato dentro questo mulino dove futilità ed emergenze create ad arte hanno dato vita a un flusso circolare e occluso, come certe perturbazioni che non se ne vogliono andare. Proprio tutto, dalla letteratura alla politica: il tempo, con il suo faticoso lavorio e gli orizzonti sono stati messi da parte, sono stati esclusi come parte fondamentale dell’equazione umana.
Si capisce perciò che alcuni rifiutino di essere scongelati, ci stanno troppo bene nelle loro vaschette da freezer, nelle loro piccole o grandi rendite di posizione, nella loro tranquillità mentale e perciò arrivano a puntare su una guerra infinita che, oltre a favorire speculazioni economiche e ogni tipo di attentato a quel po’ di democrazia che resta, sia pure solo nelle forme, sconfessi il significato storico dello scontro in Ucraina, ovvero la sconfitta di un sistema. Temono che ciò riavvii la cognizione del tempo e la consapevolezza del passaggio a un nuovo paradigma. È lo scontro fra i due terzi di umanità che guardano al futuro e un terzo che ritiene di aver raggiunto l’unico futuro possibile.
E tuttavia la precarietà, l’assenza di una visione temporale di lungo periodo è quanto mai evidente proprio in questi giorni: di fronte a problemi epocali si procede di giorno in giorno come se fossimo dipendenti dal momento, come se tutto fosse ridotto a un evento, dazi messi oggi e tolti il giorno dopo, minacce all’Iran e poi colloqui, tregua a Gaza e poi bombe, tamburi di guerra europei che poi si risolvono in nulla. Questa tattica che assume aspetti grotteschi con Trump è in realtà operante già da decenni e riflette l’incapacità di andare oltre gli schemi già prefabbricati e l’ideologia della fine della storia. Abbiamo barattato la dignità della pazienza per il caos del presente che non passa. Questa non è solo una crisi finanziaria, una crisi umanitaria, una crisi politica, una crisi militare, è in primo luogo una carestia mentale. Abbiamo dimenticato come piantare semi che impiegano decenni a crescere, anzi non sappiamo nemmeno cosa siano, abbiamo dimenticato come costruire un mondo per bambini che non incontreremo mai: il culto della gratificazione istantanea ha assassinato ogni visione. Scorriamo, spendiamo, corriamo – e ci ritroviamo con portafogli vuoti, relazioni vuote e nazioni che boccheggiano. Ciò che è importante è essere qualcosa come individui, anzi assolutizzare l’individualità come se incarnassimo un Io fichtiano atomizzato, ma non essere nulla come comunità perché questa ci limiterebbe. Una donna spagnola è stata condannata per aver detto che la Spagna è cristiana, come se questo fosse un crimine di odio verso i non cristiani. Il resto del pianeta ride: sarebbe come condannare un abitante di Casablanca se dicesse che il Marocco è mussulmano. E ho fatto un esempio di un Paese che ospita centinaia di migliaia di europei, soprattutto pensionati che si sottraggono alla povertà con questa emigrazione forzata verso posti dove la vita costa di meno.
La maggior parte dei nostri antenati ha agito e vissuto per cose che non avrebbero visto: l’obolo per cattedrali in cui solo i nipoti avrebbero messo piede, strade che solo i figli avrebbero percorso, viaggi perigliosi per un futuro tutto da immaginare, mentre noi siamo schiavi dell’immediato e perciò essenzialmente irresponsabili e allo stesso tempo impolitici, visto che la politica è l’arte di agire nel presente per preparare il futuro. Certo si vive solo una volta, ma questo non significa pensare che dopo di noi il mondo non esisterà più o come correlato oggettivo che spesso si riscontra nei più giovani, che non c’è stato nulla prima. Da ragazzo scrissi un saggettino di qualche pagina per inseguire le ragioni della poca fortuna che il grande romanzo ha avuto in Italia e lo trovai nel limitato sentimento del tempo che si ha paradossalmente in uno dei Paesi più ricchi di storia del mondo: il grande romanzo ha bisogno di un ampio respiro temporale, anche solo come scenario. Non so se avessi ragione, ma in ogni caso non avevo la più pallida idea di essere un profeta. Che avrei visto il mondo a tre dimensioni in cui vivevo trasformarsi in una platea dove solo la banalità del momento ha posto e dove si recita a soggetto senza che i personaggi abbiano bisogno di un autore. Ignari che l’attimo può essere colto davvero solo se è circondato da esperienza e speranze.
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