di Fabio Torriero

Mettiamo insieme le due frasi “incriminate” dalla sinistra. Quella del ministro Francesco Lollobrigida: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica, gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro”. E quella della premier Giorgia Meloni: “Sos manodopera? Non si risolve con i migranti, ma col lavoro femminile. Bisogna puntare sulla demografia. Le famiglie vanno incentivate a mettere al mondo i figli”.

Appello, da parte di chi scrive, rivolto alle persone ancora dotate di un minimo di raziocinio, buon senso, persone libere dai miasmi dell’ideologia, dell’ignoranza, del pregiudizio: cosa c’è di male in queste osservazioni? Assolutamente nulla.

E’ del tutto evidente che un paese paurosamente piombato nell’inverno demografico, con soli 400mila bambini all’anno, destinato quindi, a morire (ogni anno, facendo il rapporto tra nati e morti, scompare una città come Reggio Calabria), si ponga il problema del proprio futuro.
E in tale ottica, ci sono tanti modi per costruire il domani di una società. Ospitando il mondo che sbarca sulle nostre coste, oppure promuovendo le nascite, varando leggi che consentano alle donne di non dover scegliere “o il lavoro o la famiglia”, ma “e” lavoro “e” famiglia.

Una centralità della vita che non contraddice strategie mirate a un’integrazione legale di qualità (parametrata però, alle nostre esigenze economiche e disponibilità sanitarie e logistiche), distinguendo tra “accoglienza” (che per ragioni umanitarie si deve a tutti), e “cittadinanza”, che implica un percorso volontario di adesione, condivisione, oltre che lavorativa, dei nostri valori nazionali e costituzionali.

Ed ecco che le due frasi del governo acquistano un importante significato e si completano. Il ministro Lollobrigida ha denunciato un problema: mai rassegnarsi alle culle vuote, evitando soluzioni demagogiche; la premier ha segnato la rotta, spiegando la soluzione: lavoro femminile e natalità.
Messaggi diametralmente opposti alla sinistra liberal, radical, giacobina e globalista. La Schlein, reduce forse da troppe cene ai Parioli con cantanti, registi e attori di moda-Ztl, ha evocato il “suprematismo bianco”, quasi ad accostare il buon senso di un amministratore pubblico al complottismo e al nazismo, al mito superiore della razza.

Affermazioni che non meritano nemmeno risposta. Con un appunto. Non bisogna avere paura delle parole. George Bernanos, lo scrittore cattolico, ci ha insegnato che “se si perde la battaglia delle parole, si perde la battaglia delle idee”.

La riflessione vera che va fatta è che tipo di modernità si vuole. E qui confliggono due diverse impostazioni, frutto di Dna incompatibili: chi pensa che ci sia “il primato della casa che accoglie”, cioé il rispetto della cultura, della storia, della religione, dei tratti identitari di un popolo (accompagnando i migranti a tale rispetto); o chi pensa, al contrario, che le case non esistano, siano sinonimo di mura, fortezze chiuse, passato, guerre e che ci sia un’unica casa mondiale, senza identità (l’umanità come valore universale).
E allora si comprende la ragione della levata di scudi contro il rischio di “etno-invasione” e la proposta di incentivare le nascite.

Una reazione nel nome di un mondo di “apolidi” (senza identità, senza differenza tra autoctoni e nuovi arrivati), di “precari” (senza identità sociale, lavorativa) e “liquidi” (senza identità biologica).
Chi dice “ognuno a casa sua” non è, né deve essere, un suprematista razziale (concetto orribile, anticamera delle peggiori dittature), ma certamente un “suprematista culturale” (il primato della casa che accoglie).
La Schlein sa che un mondo di apolidi, precari e liquidi, ci farà diventare tutti schiavi dell’economia?

Fonte:

Di BasNews

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