Avete mai sentito parlare della professione del networker? È in grandissimo sviluppo e ormai i social di tendenza sono letteralmente infestati da proposte di affiliazione a qualche network: su Instagram la pandemia dilaga. Si, la pandemia: ci preoccupiamo molto della diffusione della variante omicron e, per carità, andrebbe anche bene se tale apprensione fosse accompagnata da quella (a mio avviso ben più necessaria) relativa a fenomeni di precipitosissimi dumping sociali. E questi ultimi riguardano sempre il mondo del lavoro, che ormai è diventato una vera e propria giungla dove a vincere non può che essere il più forte perché il più forte rappresenta paradossalmente la parte tutelata dal potere, dalla legge e in certi casi dai contratti collettivi: esattamente il contrario rispetto a quanto il diritto del lavoro avrebbe storicamente dovuto compiere, attuando il secondo comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione.

E insomma voi spulciate tra i profili Instagram e, leggendo le descrizioni, trovate “professione: networker”. È una roba semplicissima: ricordate la gente che vi veniva a casa per vendere i contenitori per conservare il cibo? Ecco di che si tratta: ti devi affiliare ad un’azienda (o a più di una), devi proporre i prodotti di quell’azienda ai tuoi contatti e devi cercare di piazzarli. Guadagni sulle provvigioni. Ovviamente puoi creare un tuo team di altri networker, i quali sfrutteranno la loro “rete” (network, appunto) e cercheranno di piazzare altri prodotti, guadagnando loro stessi mediante la provvigione e riconoscendo una parte al capo che li ha inseriti nel proprio team. A loro volta, questi networker potranno costituire una propria squadra, e così via in uno schema piramidale, dove a guadagnare saranno davvero in pochissimi: mi verrebbe qualche immagine per disegnare il profilo dei pochissimi fortunati, ma ve la risparmio.

Il nome è accattivante, networker, sembra una cosa nuova, moderna, coerente col progresso: in realtà è un’idea vecchia come il mondo, vantaggiosa solo ed esclusivamente per la grande azienda. E sì, perché la multinazionale sfrutta te e la tua rete di contatti; sfrutta la tua capacità di fare pubblicità selettiva, magari il fatto che per lanciarti proponi i prodotti ad amici e parenti. E quanto le costa tutto questo? Zero. Paga solo ed esclusivamente una provvigione (due spicci) sui prodotti effettivamente venduti: zero rischio di impresa, zero investimento. E il rischio di impresa, che non può magicamente scomparire, chi se lo accolla? Il networker ovviamente, il quale investe tempo, lavoro, impegno, relazioni personali e umane (perché c’è anche il rischio che qualche contatto non soddisfatto del prodotto ti mandi pure a quel paese).

Quali diritti ti riconosce la multinazionale in relazione al tuo lavoro? Assolutamente nessuno: niente ferie, malattia, maternità, paternità, permessi retribuiti, tutela dall’infortunio o dalle malattie professionali, retribuzione dello straordinario o del lavoro festivo, niente di niente. Zero assoluto.

Risponde perfettamente alla retorica dell’essere imprenditori di se stessi, dell’avere un approccio proattivo, solite balle e frottole: chi propone di entrare nel proprio network racconta che questo tipo di lavoro è l’anticamera per la libertà. Libertà, certo, ma non per la lavoratrice o per il lavoratore: l’unica libertà che si può leggere è quella della grande impresa di sfruttare la parte debole, quella meno tutelata e garantita, quella meno protetta dalle istituzioni e dalla legge.

Eppure i social si riempiono di questi networker che propongono video “simpatici”, “divertenti” e mettono in piazza tutto il loro disagio, lasciando sul campo anche quel po’ di dignità che davvero non dovrebbe essere sottratto a nessuno. E tuttavia non può che indurre un mesto sentimento di compassione e se accade è perché la gente è ridotta alla fame: le persone hanno fame di risorse, certo, ma anche di diritti, di prospettive, di possibilità. Sono pronte quindi ad aggrapparsi a qualsiasi promessa, compresa la più grottesca, pur di coltivare un sogno. La verità resta sempre e soltanto una: il futuro di queste persone è stato negato e a goderne sono in pochi, i soliti tycoon senza scrupoli, che è facile immaginare sghignazzanti dinanzi al teatrino indegno al quale ci hanno costretti.

Non riderete per sempre.

Savino Balzano

Savino Balzano, nato a Cerignola nel 1987, ha studiato Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Perugia. Autore di “Contro lo Smart Working” (Laterza, 2021) e di “Pretendi il Lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi” (GOG, 2019). Sindacalista, si occupa di diritto del lavoro, collabora con diverse riviste.

fonte: https://www.lantidiplomatico.it/

Di BasNews

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