E’ ripartito Sanremo. Con la gente in presenza e senza i limiti imposti dal ministro Speranza, validi solo per i comuni mortali (medesima beffa che gli italiani hanno dovuto subire a proposito del voto per il Colle, aperto ai parlamentari e delegati regionali positivi asintomatici).
Sanremo come ultima festa comandata. Dopo Natale, Capodanno, Pasqua, c’è la storica kermesse canora. E dopo la settimana quirinalizia, finalmente ecco l’attesa distrazione di massa.
Le canzoni, ormai, sono solo una mera, secondaria appendice. La fa da padrone lo spettacolo, sia dentro le canzoni, sia fuori, negli interminabili intervalli tra i duetti dei conduttori, gli ospiti e le troppo insistenti pubblicità.
Un intrattenimento ben studiato a tavolino dai vertici Rai, tanto da meritare il titolo di “autobiografia della nazione”. Ma non nel senso della parte migliore dell’Italia, ma dell’autorappresentazione di quanto è di moda e alla moda. Un mix tra il kitsch e il pensiero unico. Con grande attenzione a rappresentare tutti i segmenti del mega Circo-Barnum progressista. Un pizzico quindi, di Dio-Patria-Famiglia, di blasfemia, di sì vax e no vax, di progressismo e italietta, orgoglio italiano e globalizzazione.
Insomma, la normalizzazione in salsa Amadeus. E la finta provocazione, in realtà totalmente politicamente corretta, del pur brillantissimo Fiorello, che non ha risparmiato la macchiettizzazione di un’informazione Rai da Rsa e i complottisti, impauriti per il vaccino, i poteri forti, il grafene.
Un duo (il conduttore e l’intrattenitore tutto fare), già collaudato e un po’ usurato. Che comunque si è aggrappato al falso stupore di Amadeus e all’improvvisazione di Fiorello, che almeno ha avuto il merito di alzare gli ascolti e movimentare una scena completamente narcotizzata da un’Ornella Muti ingessata e imbalsamata (meno che sulle tematiche legate all’ideologia Lgbt e alla droga libera), al pari del tennista italo-monegasco Berrettini, molto più a suo agio sui campi da tennis che all’Ariston.
E che dire delle canzoni? Marcette che possono essere giustificate unicamente dall’esigenza di uscire dal grigio e dall’atmosfera mortifera del Covid.
Questo il filo conduttore che ha soprattutto legato le musiche e i testi di Gianni Morandi, Anna Mena, Dargen D’Amico e la ridicola Ciao Ciao della Rappresentante di lista.
Per non parlare di Achille Lauro: sottovuoto spinto che concentrato sulla provocazione ha divorato sé stesso, arrivando al punto di auto-battezzarsi, mostrandosi a petto nudo con un paio di pantaloni, toccandosi, come una pop-star degli anni Settanta. Qualcuno dovrebbe avvertirlo che il format di dissacrare ciò che resta ancora di sacro, in un mondo totalmente secolarizzato, è grottesco e non rivoluzionario. E’ molto ordinario e omologato. Ma il solo trattarne rischia di fare ciò che lui desidera: pubblicità a una canzone mediocre.
Discreti, invece, Michele Bravi e Giusy Ferreri. Ma naturalmente scivoleranno nell’indifferenza. Troppo sofisticati o classici per fare notizia e colpire. Notevoli i Maneskin, specialmente la seconda canzone: teatrale e struggente, quella che li ha portati al successo, invece, ricorda troppo i Deep Purple, senza la bravura tecnica del quintetto inglese.
Domani parleremo di Checco Zalone, ospite d’onore ieri: una ventata di novità. Assai diversa dalla scontata tele-predica forcaiola che farà oggi Saviano.
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