Mercoledì Sanremo ha preso definitivamente il via, nel senso propriamente pseudo-culturale del termine. Se non ci fosse stato Checco Zalone, la puntata sarebbe stata totalmente in linea col pensiero unico dominante. Il “minchiometro nazionale”, come da felice definizione di Marcello Veneziani.
Se nella giornata dell’esordio la kermesse ha tentato di rappresentare tutti i segmenti della società, dando il contentino a ogni target (cattolico, anticattolico, laicista, nazionalista, cittadini del mondo), il secondo appuntamento ha delineato, invece, nero su bianco, la “retta via” da seguire. Il pistolotto antirazzista, da integrata virtuosa, che però ha subìto gli insulti social, di Lorena Cesarini, è stato insopportabile. 10 minuti di bolsa, piagnucolosa e scontata retorica, che semmai ha rischiato di ottenere la reazione opposta. Ma la Cesarini si è mai chiesta se per caso l’hanno chiamata proprio per questo? Della serie, era già tutto previsto, dati “caso giornalistico” e pretesto, le attuali conclusioni….
Un messaggio obbligato, con tanto di applausi dovuti del sistema, che fa il paio con la tele-omelia di Saviano, con la canzone “Brividi” (Mahmood e Blanco), che occhieggia ad un amore para-omo (altro tema di moda e vincente da politicamente corretto), e con le prevalenti battute “anti-no-vax” di Fiorello, macchiettizzando milioni di italiani che hanno il diritto di dissentire sulla campagna vaccinista, con la solita, anche qui, retorica del complottismo, del terrapiattismo.
Del resto, l’ironia normalizza sempre il sistema. Per non parlare dell’atto blasfemo di Achille Lauro (l’auto-battesimo), che non ha causato reazioni degne di nota, da parte cattolica (salvo qualche movimento), che avrebbero solo fatto il gioco del cantante. Apprezzabile e intelligente la reazione de L’Osservatore Romano, che ha detto nella sostanza, “aridatece David Bowie”, non ci sono più i veri trasgressori di una volta.
Checco Zalone è stato un nettare. Innanzitutto per come è partito: dalla galleria, dove sta “il popolino” che lui incarna, e non in platea, dove siede l’oligarchia dominante (attori, giornalisti, dirigenti Rai, politici). Che ride e balla a comando (basto un ordine di Amadeus). E su cui pesa il “teorema del marchese del Grillo”: “Io sono io e voi non siete un c…”.
Milioni di italiani confinati a casa, rispettando le regole, e politici che eleggono il capo dello Stato, che le bypassano, e cantanti sul palco dell’Ariston, a cui non viene chiesto il vaccino, per non turbare la loro privacy.
Che schifo. Il comico pugliese ha indubbiamente rovesciato i tavoli. In primis, interpretando una fiaba anti-omofobia, poi il classico rapper disperato, rabbioso, nichilista solo come prodotto commerciale, in realtà unicamente “poco ricco” e senza tanti problemi. E infine, sfottendo virologi diventati star televisive. Naturalmente il circo Barnum televisivo e non solo, ha bollato l’interpretazione di Checco Zalone, come divertente, ma “con battute incomprensibili”. Una sorta di censura da superiorità etica.
Le canzoni, salvo Elisa e Iva Zanicchi (forse la migliore finora), hanno confermato la voglia di fuga dalla realtà e di evasione leggera che coglie le persone quando vivono periodi di tristezza, guerra, povertà e Covid. Molte marcette, neanche tanto originali. La pandemia ha creato il vero bipolarismo: paranoia vs evasione.
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