di Americo Mascarucci

Che il quorum sui referendum in materia di giustizia non sarebbe stato raggiunto era scontato e anche chi nei giorni precedenti fingeva ottimismo sapeva perfettamente come in realtà sarebbe andata a finire.

L’affluenza alle urne è stata del 20,9%, meno della metà del quorum richiesto, e i giornali hanno parlato di “referendum meno partecipati della storia repubblica”. Praticamente un fallimento totale, e questo dimostra ancora una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, come il popolo italiano non creda più nella democrazia partecipata. Ormai è evidente che il partito del “non voto” sta diventando sempre di più quello di “maggioranza relativa”, e se la gente non va più a votare nemmeno i sindaci delle proprie città (l’affluenza alle amministrative è stata del 54,72%) figurarsi se può stare dietro a quesiti cervellotici e a referendum che poi, nella migliore delle ipotesi, restano lettera morta come spesso avvenuto in passato.

Quindi soltanto un miracolo avrebbe potuto convincere la metà più uno degli aventi diritto a fare la fila ai seggi per dire se è giusto o meno separare le carriere dei magistrati, o se è giusto che membri laici degli organismi giudiziari possano o meno concorrere alla valutazione sull’operato dei magistrati.

E a farne le spese oggi è soprattutto il leader della Lega Matteo Salvini che su questi referendum ci ha messo la firma e la faccia, impegnandosi prima con la raccolta delle firme e poi con la campagna referendaria. Alla fine i referendum sulla giustizia sono stati percepiti come “i referendum di Salvini’ e oggi tutti i giornali stanno mettendo in evidenza l’ennesima pesante sconfitta del capo del Carroccio. Che ora pare dovrà fronteggiare pure il malessere interno, dal momento che non tutti nella Lega hanno condiviso la scelta di schierarsi in prima linea, definendo sbagliata e suicida la decisione del leader di cavalcare una battaglia referendaria dagli esiti rischiosi. E un pò tutti alla fine, nel Pd, nel M5S, ma anche nel centrodestra, hanno tifato per il fallimento dei referendum proprio per veder ulteriormente indebolito il capo leghista.

Ora si stanno cercando le cause del flop e ognuno addita un capro espiatorio. C’è chi parla di quesiti troppo difficili da comprendere al punto che in molti comuni dove si votava anche per le amministrative, numerosi elettori hanno rifiutato le schede referendarie limitandosi a prendere soltanto quella relativa all’elezione del sindaco.

Poi sicuramente c’è stato un vuoto d’informazione evidente; soltanto nelle ultime due settimane infatti i referendum hanno trovato spazio nei telegiornali e molta gente fino all’ultimo ha ignorato completamente le materie oggetto di abrogazione. I più volenterosi si sono attrezzati in proprio, andando su internet e informandosi autonomamente, mentre la stragrande maggioranza ha preferito il tradizionale “chissenefrega”. Ma in verità, ad ogni tornata referendaria in cui è richiesto il raggiungimento del quorum, l’informazione è sempre la grande accusata, sin dai tempi di Marco Pannella che non a caso si presentava nei dibattiti televisivi travestito da fantasma per denunciare il silenzio dei media: ma almeno all’epoca un minimo di dibattito era comunque garantito, mentre stavolta è sembrato come se si fosse data per scontata l’inutilità di perdere tempo spiegando ai cittadini cosa votavano e cosa sarebbe cambiato.

Discutibile sicuramente anche la scelta di votare in una sola giornata, per giunta con il covid ancora in circolazione e con il rischio assembramenti ai seggi, che si sono verificati soprattutto laddove si votava per le amministrative. Se si fosse votato anche oggi per i referendum non sarebbe cambiato nulla, il quorum non sarebbe stato comunque raggiunto, ma è ovvio che tanta gente ha preferito non rinunciare al weekend al mare, e non si è certamente preoccupata di rientrare in tempo per poter votare.

Certamente il fallimento referendario non incoraggia il Parlamento a realizzare quella riforma della giustizia tanto auspicata e quindi non resterà che accontentarsi dei passi avanti fatti con la Riforma Cartabia. Riforma che in verità ci chiede anche l’Europa, ma che come tutte le riforme tipicamente italiane alla fine è sempre frutto di un compromesso fra le parti interessate, in questo caso politica e magistratura, con l’obiettivo di far tutti contenti o al massimo di scontentare il meno possibile. Certo, una vittoria netta dei Sì avrebbe obbligato il Parlamento almeno a confrontarsi con la volontà del popolo sovrano, cercando di recepire quelle istanze. Ma forse gli italiani hanno ancora in mente i referendum elettorali partecipati e vinti, con il risultato di ritrovarsi ogni cinque anni leggi elettorali abbozzate, annacquate e puntualmente ritagliate su misura per gli interessi dei partiti e delle coalizioni. Precedenti davvero poco incoraggianti per spingere un popolo ormai cronicamente astensionista, a credere nell’utilità e nell’importanza dell’istituto referendario.

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