di Aldo Di Lello

Premierato, ci siamo: il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato il disegno di legge costituzionale che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio. È prevista anche una nuova legge elettorale con un premio di maggioranza. La coalizione o la lista che prenderà più voti otterrà il 55% dei seggi in Parlamento.

Per Giorgia Meloni comincia una partita importante, forse la più importante della legislatura. Una partita cruciale e, in quanto tale, anche rischiosa. Ci sono vari precedenti ad ammonire la premier: i tentativi di riforma costituzionale non hanno mai portato bene ai leader che li hanno promossi.  A scottarsi le mani sono stati Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Quest’ultimo c’ha rimesso anche lo scranno di palazzo Chigi.

Ma Giorgia è un tipo tosto e non si lascia intimidire dai vari uccelli del malaugurio che già si sono levati in volo, anche perché i vari gufi potrebbero essere questa volta sonoramente smentiti.   

Il fatto è che la Meloni ci crede, in questa riforma. L’istituzione del premierato le offrirebbe l’occasione di entrare nella storia: l’elezione diretta del presidente del Consiglio sarebbe una vera rivoluzione, che ci porterebbe realmente in una nuova Repubblica. La quale, da parlamentare, diverrebbe “presidenziale”, anche se non nel senso propriamente detto, ma in un senso che comunque le si avvicina. Piaccia o non piaccia, cambierebbe tutto.

Il premierato, dice Giorgia, è «la madre di tutte le riforme». Questo cambiamento costituzionale, spiega la premier, «garantisce il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare mettendo fine alla stagione del trasformismo e dei governi tecnici». «L’altro risultato – aggiunge – è che con le riforme si garantisce la stabilità per avere credibilità. Si garantisce l’orizzonte di fine legislatura».

Quello previsto dal disegno di legge approvato ieri, non è un premierato “hard” ma “light”, nel senso che l’eventuale caduta del premier eletto dal popolo non comporterebbe automaticamente lo scioglimento delle Camere. Prima di andare alle elezioni anticipate, si dovrebbe verificare la possibilità di costituire un governo con la stessa maggioranza: o con lo stesso premier, oppure con un esponente politico eletto in una lista collegata al capo del governo dimissionario. Solo se non si riuscisse a ricostituire la stessa maggioranza, si dovrebbe sciogliere il Parlamento.  Eventuali voti dall’opposizione non dovranno essere sostitutivi, ma aggiuntivi. E ciò per impedire trasformismi o manovre di palazzo. Non per niente, hanno chiamato questa disposizione “norma anti-ribaltone”. Nel disegno di legge è anche espressamente previsto di  salvaguardare la Repubblica da eventuali governi tecnici: non potrà diventare presidente del Consiglio chi non fa parte del Parlamento. Un esempio eclatante: Mario Draghi non sarebbe mai diventato premier.

È noto che Giorgia Meloni avrebbe preferito un premierato in forma “hard” (e in tal senso s’era espresso nei giorni scorsi il presidente del Senato Ignazio La Russa in una intervista a “la Repubblica”). Ma, se fosse uscita una bozza simile, è probabile che Sergio Mattarella avrebbe lanciato tuoni e fulmini. La figura del capo dello Stato ne sarebbe uscita, nella prospettiva quirinalizia, troppo ridimensionata. In ogni caso, alla forma “hard” si è opposto con decisione Matteo Salvini, paventando la possibilità che il potere del premier potrebbe risultare soverchiante rispetto agli altri leader della coalizione con la quale ha vinto le elezioni. E la premier ha dovuto fare di necessità virtù.

Giorgia Meloni si può però tranquillamente accontentare anche di questa forma “light”. L’”interventismo” del Colle, che abbiamo sperimentato negli ultimi anni a ogni crisi di governo, sarebbe comunque disattivato. Il presidente della Repubblica non dovrebbe più conferire alcun incarico a formare il governo dopo le elezioni. Avrebbe solo il compito di nominare il presidente del Consiglio eletto dal popolo.

Certo, il premier in forma “light” non è esattamente il “sindaco” d’Italia cui aspira, oltre alla Meloni, anche Renzi. Ma si assisterebbe in ogni caso a un sensibile mutamento degli equilibri istituzionali.

A questo punto il problema diventata soprattutto politico e si sposterà al termine del processo di riforma costituzionale, più o meno tra due anni. In tale fase si svolgerà con ogni probabilità il referendum confermativo. La decisione finale passerà infatti al popolo sovrano perché è pressoché certo che questa legge di riforma non passerà con i due terzi dei voti del Parlamento ma solo a maggioranza semplice, anche se larga (il progetto del governo potrà probabilmente contare anche sul voto favorevole di Italia viva). Ci vorrà quindi una consultazione referendaria per rendere definitiva la legge costituzionale approvata dalle Camere.

Per Meloni si potrà trattare di un passaggio assai rischioso. Perché la maggioranza che la sostiene in Parlamento potrebbe non corrispondere a quella che eventualmente scaturirà dalle urne. La campagna referendaria risulterà incandescente, con tutte le conseguenze del caso.

Ma vuoi mettere… la nuova Repubblica che nascerebbe in caso di approvazione referendaria sarebbe sotto il segno della destra. E sarebbe un fatto che non è esagerato definire epocale. Per Georgia vale davvero la pena rischiare. È per questo che, già da oggi, l’opposizione di sinistra è in piena isteria. E in tale condizione rimarrà anche in futuro. Ne vedremo davvero delle belle.  

Fonte:

Di BasNews

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