Ancora venti di guerra tra palestinesi e israeliani, innescati dall’assassinio da parte delle forze israeliane di Taysir Al Jabari, uno dei leader della Jihad islamica, ucciso in un raid a sorpresa a Gaza che ha mietuto dieci vittime civili, tra cui una bambina.
Il raid e le trattative con l’Egitto
Il raid è stato giustificato come un’operazione preventiva: la Jihad aveva minacciato di reagire all’arresto di un suo comandante, Bassam al-Saadi, avvenuto in precedenza in Cisgiordania e ha innescato una risposta missilistica dell’organizzazione palestinese che non ha provocato vittime.
Tanti i retroscena di questa nuova crisi. Daoud Shehab, responsabile della comunicazione della Jihad, ha dichiarato che l’attacco israeliano è stato effettuato mentre erano in corso delle trattative mediate dall’Egitto per porre fine alle tensioni seguite all’arresto di cui sopra, aggiungendo che “solo un’ora prima dell’aggressione, eravamo entrati in contatto con i fratelli egiziani, i quali ci avevano fatto delle proposte che abbiamo accolto positivamente”.
La Jihad islamica, movimento islamista considerato terrorista da molti Paesi, usa assumere pose muscolari, per cui sorprende questa dichiarazione di segno opposto, da cui certa credibilità. Insomma, la crisi si poteva evitare, dal momento che le tensioni nate dopo l’arresto di Bassam al-Saadi potevano essere risolte senza una risposta militare israeliana. Tant’è.
A far precipitare le cose forse il nervosismo dei generali israeliani, ma a giocare un ruolo è stata di certo anche la necessità delle forze di governo di evitare accuse di debolezza da parte dei loro avversari politici, che potevano risultare distruttive in vista delle elezioni del prossimo novembre.
A dare voce a questa diffusa sensazione è Tariq Kenney-Shawa, membro di The Palestine Policy Network, un think tank americano: “Israele sta usando gli abitanti di Gaza come pedine sacrificali nella loro lotta continua per il potere” (al Jazeera).
La visita a Teheran di Ziad al Nakhaleh
Ma c’è un altro elemento di criticità che ha contribuito non poco a inasprire la situazione e che è forse il vero motivo dell’intervento israeliano: la visita a Teheran di Ziad al Nakhaleh, il segretario generale della Jihad islamica, che ha avuto luogo i in contemporanea con il raid.
Un viaggio inusuale quello di Nakhaleh, perché l’Iran non ha rapporti con tale movimento islamico, peraltro di filiazione sunnita, il cui alto significato politico è evidenziato anche dal fatto che il leader della Jihad è stato ricevuto dal presidente iraniano Ebrahim Raisi (1).
E proprio mentre la Jihad celebrava questo successo politico sono arrivate le bombe su Gaza, come evidenzia un articolo di Fiamma Nirenstein sul Giornale che enumera le ragioni di Israele e i torti dei palestinesi.
Il ruolo di Hamas
Venti di guerra, insomma, che potrebbero dar vita a un incendio effimero o divorante. Ad oggi il confronto è limitato, dal momento che Hamas, che di fatto controlla la Striscia di Gaza, non è coinvolta.
Questo il titolo di un articolo di Judy Maltz su Haaretz: “Hamas non ha ancora lanciato razzi e determinerà se la battaglia diventerà una guerra”. In un aggiornamento, sempre su Haaretz, Jack Khoury riporta una nota di al Maydeen che riferisce di come il leader di Hamas abbia “contattato il capo dell’intelligence egiziana nel tentativo di fermare l’escalation”.
Hamas può restare fuori dalla mischia, ma solo se quanto avvenuto non precipita in una macelleria, con attacchi continuati contro la Striscia e i suoi abitanti. Le forze israeliane hanno annunciato un’operazione di una settimana, una tempistica che indulge a credere che nella leadership israeliana si sta tentando di porre un freno ai falchi e limitare il confronto.
Ma sia tra i palestinesi che tra gli israeliani ci sono forze che spingono per una guerra aperta. E gli ambiti più estremi, nelle crisi, hanno margini di manovra più ampi.
(1) Peraltro proprio proprio giovedì, a Vienna, sono ripresi i colloqui per cercare un accordo sul nucleare iraniano dopo mesi di stallo. E stavolta appaiono più promettenti, avendo l’Iran rinunciato a chiedere agli Stati Uniti la cancellazione dei Guardiani della rivoluzione dalla lista nera del terrorismo (Reuters).
Una guerra a Gaza complicherebbe non poco le cose perché rafforzerebbe i falchi israeliani, ferocemente avversi all’intesa. Ma soprattutto perché gli Usa non possono non sostenere Israele, come Teheran non può sostenere i palestinesi, complicando non poco il dialogo tra i due Paesi. Peraltro, imboccare vie di pace mentre piovono le bombe è sempre complicato.
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