di Rosamaria Fumarola
Negli anni venti del secolo scorso nel quartiere nero di New York, Harlem, i bianchi ogni sera andavano ad ascoltare musica. Commetteremmo ovviamente un errore grossolano se ritenessimo che la musica eseguita in quel ghetto fosse blues, di lamentazione cioè della condizione degli afroamericani. I bianchi desideravano infatti divertirsi ed il jazz prodotto in quegli anni, lo swing, era fatto apposta per i bianchi ed il loro diletto. Nei locali di Harlem non era consentito ai neri entrare e sedersi per un drink, gli era permesso però suonare ed entro certi limiti scegliere cosa suonare. New York in quegli anni si stava candidando a diventare la città americana più importante degli States, soprattutto da un punto di vista economico e le vicende che hanno riguardato il jazz sono inscindibili dall’andamento dell’economia in certi luoghi e dalla possibilità di sopravvivere che offrivano, attraendo folle di migranti dall’Europa ed afroamericani dal sud del nuovo continente, nonostante le misure che il governo di volta in volta assumesse per arginare il fenomeno.
La guerra aveva infatti arricchito enormemente gli Stati Uniti, che stavano diventando il paese più potente al mondo, nonostante le sue contraddizioni anzi, grazie alle sue contraddizioni. Perché se da un lato non era permesso ad un uomo di colore entrare e sedersi in un locale ad Harlem, dall’altro si stava formando in quegli stessi luoghi una ricca borghesia di afroamericani che era impensabile veder nascere negli stati del sud.
Ma perché i bianchi negli anni venti affollavano i locali di Harlem? Erano tutti estimatori del genere? Come sopra scritto i bianchi desideravano divertirsi e gli uomini di colore riuscivano a guadagnarsi in questo modo di che vivere. A certe condizioni però. Duke Ellington ad esempio (colui che inventò la parola “swing” con la sua celebre “It don’t mean a thing if ain’t got that swing”) si esibiva ogni sera tra discutibili palmizi e ragazze di colore, che dovevano in qualche modo ricordare l’origine africana ed alle cui esibizioni tanti bianchi assistevano con una certa morbosità, non dissimile da quella di chi si reca ad uno zoo per provare un brivido di paura e tuttavia sentirsi rassicurato dalla recinzione che separa gli animali dagli esseri umani. Un afroamericano poteva, grazie alle sue capacità emanciparsi fino a diventare un borghese, ma permaneva il pregiudizio che voleva vedere in quegli uomini i rappresentanti di una razza inferiore, perché infondo la vera caratteristica della società americana è stata e forse è ancora, il suo essere razzista. È mio personale convincimento che tanti bianchi (non tutti ovviamente) assistessero alle esibizioni degli afroamericani per cercare conferme alla propria presunta superiorità di razza, nonché sociale ed economica. Dovremmo concludere che lo swing fu musica di serie B, deteriore per la causa dei neri d’America? Non tutta. Quella del già citato Duke Ellington fu arte a tutti gli effetti ad esempio, nonostante le folkloristiche coreografie senza le quali il duca non avrebbe potuto mettere piede sul palco.
Si è detto del ruolo eccezionale dal punto di vista economico della città di New York in quegli anni. Quanto invece a quello avuto in ambito strettamente jazzistico non va dimenticato che fu il luogo dell’incontro della musica prodotta a New Orleans ed a Chicago, fondata quasi esclusivamente sull’improvvisazione (non sapendo i neri leggere la musica) con quella della tradizione degli immigrati bianchi, che si serviva delle partiture. La contaminazione, nonostante i tentativi protezionisti del sindacato dei musicisti bianchi di impedire ai neri di esibirsi, prevalse assieme a quella che è considerata la tipica “democraticità” del jazz, che consente a tutti quanti facciano parte di un gruppo di esprimersi, dimostrando ancora una volta quanto la realtà, in questo caso artistica, sia sempre stata e stia un passo avanti alle istanze ed alle realizzazioni di qualsivoglia parte politica.