“L’Europa ha perso ampiamente la rivoluzione digitale guidata da Internet e gli aumenti di produttività che ha portato: infatti, il divario di produttività tra l’UE e gli Stati Uniti è in gran parte spiegato dal settore tecnologico. L’UE è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura. Solo quattro delle 50 aziende tecnologiche più importanti al mondo sono europee. Eppure, il bisogno di crescita dell’Europa è in aumento. L’UE sta entrando nel primo periodo della sua storia recente in cui la crescita non sarà sostenuta dall’aumento della popolazione. Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro si ridurrà di quasi 2 milioni di lavoratori all’anno. Dovremo fare maggiore affidamento sulla produttività per guidare la crescita……
L’Europa deve riorientare profondamente i suoi sforzi collettivi per colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. L’Europa è bloccata in una struttura industriale statica, con poche nuove aziende che sorgono per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita. In effetti, non c’è nessuna azienda dell’UE con una capitalizzazione di mercato superiore a 100 miliardi di euro che sia stata creata da zero negli ultimi cinquant’anni, mentre tutte le sei aziende statunitensi con una valutazione superiore a 1.000 miliardi di euro sono state create in questo periodo. Questa mancanza di dinamismo si autoavvera.
Poiché le aziende dell’UE sono specializzate in tecnologie mature, dove il potenziale di innovazione è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione (R&I) – 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021”
Dalla introduzione del Rapporto Draghi
Fonte : https://www.eunews.it/2024/09/09/il-rapporto-draghi-in-italiano/
Come nasce il rapporto?
Dopo mesi di studio commissionati a tecnici, docenti, burocrati analisti economici e finanziari, è arrivato il rapporto sulla competitività di Mario Draghi, un insieme di indicazioni che a livello comunitario saranno poi sintetizzate e recepite dalle Commissioni Ue per poi impartire disposizioni vincolanti per i vari paesi membri. La minaccia di infrazione contro i paesi meno obbedienti al rispetto delle norme e ai principi guida europei saranno da oggi in poi strumenti sempre più utilizzati per consentire alle risorse economiche un utilizzo funzionale agli obiettivi strategici comunitari che poi sono determinati non dai parlamenti o dai popoli ma dai blocchi economici e finanziari dominanti.
In attesa di una analisi approfondita del testo si capisce che il futuro della Ue sarà all’insegna di decisioni verticistiche calate dall’alto sui governi nazionali, da qui ad ipotizzare la fine delle sovranità nazionali il passo è veramente breve.
L’Ue, dopo la crisi pandemica e gli effetti nefasti sulla sua economia derivanti dal sostegno alla guerra in Ucraina, prova a rilanciare la sua offuscata immagine centralizzando decisioni rilevanti in materia di economia e finanza, il ruolo delle Commissioni sarà dirimente, il Parlamento europeo recepirà gli indirizzi calandoli a loro volta sugli stati nazionali che dovranno a loro volta adeguarsi e obbedire. Le misure “consigliate” si trasformeranno in imperativi categorici, le commissioni sono espressione non solo dei partiti più forti a livello europeo ma ostaggio di lobby e poteri economici e finanziari.
La Ue dei mercati e del capitale necessita di uno Stato forte
“In primo luogo, sebbene l’Europa debba avanzare con la sua Unione dei Mercati dei Capitali, il settore privato non sarà in grado di fare la parte del leone nel finanziamento degli investimenti senza il sostegno del settore pubblico. In secondo luogo, quanto più l’UE è disposta a riformarsi per generare un aumento della produttività, tanto più aumenterà lo spazio fiscale e sarà più facile per il settore pubblico fornire questo sostegno. Questo collegamento sottolinea perché l’aumento della produttività è fondamentale. Ha anche implicazioni per l’emissione di beni comuni sicuri.
Per massimizzare la produttività, sarà necessario un finanziamento congiunto per gli investimenti in beni pubblici europei chiave, come l’innovazione rivoluzionaria. Allo stesso tempo, ci sono altri beni pubblici identificati in questo rapporto – come gli appalti per la difesa o le reti transfrontaliere – che saranno insufficienti senza un’azione comune. Se le condizioni politiche e istituzionali sono soddisfatte, anche questi progetti richiederebbero un finanziamento comune”.
Il testo di Draghi sarà quindi il vero programma di riforme e controriforme, di interventi in materia di lavoro, economia e finanza per rilanciare la Ue, per raggiungere questo obiettivo servono soldi e l’idea di una sorta di nuovo e grande PNRR diventa a questo punto a dir poco suggestiva.
Rispetto al PNRR ci sarà tuttavia sempre meno discrezionalità e gli spazi di manovra degli stati nazionali ridotti al lumicino e non è detto che il capitale finanziario sia ben disposto ad accordare prestiti onerosi senza le dovute contropartite che poi determineranno processi di privatizzazione, svendita dei beni comuni e milioni di licenziamenti nei settori giudicati non competitivi.
Il documento Draghi arriva in un momento di grave crisi economica e finanziaria ma anche di crisi politica della Ue con una spinta dell’elettorato (ormai la metà degli aventi diritto al voto) verso posizioni reazionarie, di destra e nazionaliste viste come la sola risposta possibile alle burocrazie e alle politiche di Maastricht, fautori della precarietà economica e sociale. Non corrisponde a verità l’ottimismo draghiano sui sistemi di welfare comunitario che sappiamo essere profondamente diseguali, i paesi poi che avevano un forte e radicato stato sociale lo stanno via via smantellando e quello che si ritiene un punto di forza della Ue in realtà ha subìto involuzioni e trasformazioni nel corso degli anni, quando si sono delocalizzate produzioni verso l’est europeo ove il costo del lavoro era assai ridotto e ove anche il welfare era ai minimi termini, visto come una sorta di antico retaggio del socialismo reale.
L’impasse dell’approvigionamento energetico
La Ue vuole uscire dall’impasse in cui ormai si trova evitando di affrontare le cause della stagnazione economica derivante dal picco dei prezzi di gas e petrolio oggi acquistati dagli Usa al doppio dei prezzi pagati alla Russia. Prova ne sia l’acquisto a prezzi insostenibili del gas liquefatto che necessita di infrastrutture nuove; ebbene, il gas liquefatto è comprato dagli Usa che poi sono il paese da cui proviene anche la tecnologia necessarie per le infrastrutture. Alcune parole d’ordine, ad esempio decarbonizzazione e produttività, sono già note, da qui deriva il bisogno di accelerare i processi innovativi e tecnologici magari con le cosiddette tecnologie duali, utilizzabili in ambito militare e civile.
All’orizzonte non solo la fusione di aziende competitive ma politiche industriali sinergiche a partire dalla produzione in ambito militare.
Decarbonizzazione significa potenziare l’energia alternativa? No, si rilancia il nucleare
In Europa sono ancora molti, troppi, a credere che la svolta green equivalga al rilancio delle energie pulite ripudiando non solo i fossili ma anche il ricorso al nucleare. Il rapporto Draghi smentisce questo luogo comune e oggi tra le energie green si annovera anche quella nucleare rilanciata come alternativa al petrolio.
Citiamo a tal riguardo un passaggio eloquente del Rapporto:
“La decarbonizzazione del sistema energetico e la transizione verde potrebbero migliorare la competitività dell’UE in due modi. In primo luogo, ha il potenziale per ridurre radicalmente la dipendenza dalle importazioni. Il piano di obiettivi climatici per il 2040 indica tra 190 e 240 miliardi di metri cubi di importazioni di gas entro il 2030, rispetto ai 334 miliardi di metri cubi del 2021. In secondo luogo, potrebbe favorire la diffusione massiccia di fonti energetiche pulite con bassi costi marginali di generazione, come le energie rinnovabili e il nucleare.
L’importanza del “nuovo nucleare” per il futuro del sistema energetico. Attualmente, dodici Stati membri su 18 utilizzano l’energia nucleare per produrre elettricità a basse emissioni di carbonio in 100 reattori di potenza (96 GW di capacità netta totale installata). Questo rappresenta circa il 23% della produzione totale di elettricità dell’UE nel 2023. Questa cifra era del 34% nel 2004. Le centrali nucleari dell’UE stanno invecchiando e le nuove costruzioni sono notevolmente rallentate. L’energia nucleare può contribuire, insieme all’ampia diffusione delle energie rinnovabili e di altre tecnologie, a raggiungere gli obiettivi climatici dell’UE e a rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento.
Allo stesso tempo, la diffusione dell’energia nucleare contribuisce a garantire un approvvigionamento affidabile e a promuovere la leadership dell’UE nell’industria nucleare. L’energia nucleare ha il vantaggio di essere una fonte di energia neutra per quanto riguarda la produzione di gas a effetto serra, non intermittente e con cicli lunghi nelle sue catene di approvvigionamento che limitano i rischi di dipendenza. Il “nuovo nucleare” potrebbe inoltre svolgere un ruolo nei sistemi energetici integrati con un’alta penetrazione di fonti rinnovabili, fornendo una generazione flessibile.
Inoltre, la nuova generazione di tecnologie nucleari può contribuire a costruire una catena di approvvigionamento tecnologico competitiva nell’UE”.
I competitor Usa e Cina
Draghi guarda ai due competitor, Cina ed Usa, con evidente sospetto sapendo che la Ue è stata schiacciata da questi due colossi economici ma senza dire che avere inseguito la Nato nella guerra Ucraina è stato l’inizio del crollo della economia europea e della crisi sociale e politica che attanaglia i paesi membri. Citiamo a tal riguardo un passo del Rapporto assai eloquente:
“L’UE deve affrontare un possibile compromesso. Una maggiore dipendenza dalla Cina può offrire il percorso più economico ed efficiente per raggiungere i nostri obiettivi di decarbonizzazione. Ma la concorrenza statale cinese rappresenta anche una minaccia per le nostre industrie produttive di tecnologia pulita e automobilistica. La decarbonizzazione deve avvenire per il bene del nostro pianeta. Ma affinché diventi anche una fonte di crescita per l’Europa, avremo bisogno di un piano congiunto che abbracci le industrie che producono energia e quelle che consentono la decarbonizzazione, come la tecnologia pulita e l’industria automobilistica”.
Ciò che preoccupa Draghi è il nanismo industriale europeo, una definizione del compianto Luciano Gallino, per cui le risorse economiche saranno allocate in settori giudicati trainanti e a beneficio dei grandi colossi industriali che nasceranno nei prossimi anni distruggendo le politiche nazionali e interi assetti produttivi con l’inevitabile licenziamento di milioni di lavoratori e lavoratrici.
Limiti strutturali del capitalismo europeo
E ancora una volta rinviamo alla fonte per illustrare gli intenti draghiani:
“In primo luogo, all’Europa manca la concentrazione. Articoliamo obiettivi comuni, ma non li sosteniamo definendo priorità chiare o dando seguito ad azioni politiche congiunte. Ad esempio, sosteniamo di favorire l’innovazione, ma continuiamo ad aggiungere oneri normativi alle aziende europee, che sono particolarmente costosi per le PMI e autodistruttivi per quelle dei settori digitali. Più della metà delle PMI in Europa indica gli ostacoli normativi e gli oneri amministrativi come la loro sfida più grande.
Abbiamo anche lasciato il nostro Mercato Unico frammentato per decenni, il che ha un effetto a cascata sulla nostra competitività. Spinge le aziende a forte crescita all’estero, riducendo a sua volta il bacino di progetti da finanziare e ostacolando lo sviluppo dei mercati dei capitali europei. E senza progetti a forte crescita in cui investire e mercati dei capitali che li finanzino, gli europei perdono l’opportunità di diventare più ricchi. Anche se le famiglie dell’UE risparmiano di più rispetto alle loro controparti statunitensi, la loro ricchezza è cresciuta solo di un terzo dal 2009.
In secondo luogo, l’Europa sta sprecando le sue risorse comuni. Abbiamo una grande capacità di spesa collettiva, ma la diluiamo in molteplici strumenti nazionali e comunitari. Ad esempio, non stiamo ancora unendo le forze nell’industria della difesa per aiutare le nostre aziende a integrarsi e a raggiungere una scala. Gli acquisti collaborativi europei hanno rappresentato meno di un quinto della spesa per l’acquisto di attrezzature per la difesa nel 2022.
Inoltre, non favoriamo le aziende europee competitive nel settore della difesa. Tra la metà del 2022 e la metà del 2023, il 78% della spesa totale per gli acquisti è stata destinata a fornitori extra-UE, di cui il 63% agli Stati Uniti. Allo stesso modo, non collaboriamo abbastanza sull’innovazione, anche se gli investimenti pubblici in tecnologie innovative richiedono grandi capitali e le ricadute per tutti sono sostanziali.
Il settore pubblico dell’UE spende in R&I circa quanto gli Stati Uniti come quota del PIL, ma solo un decimo di questa spesa avviene a livello europeo.
In terzo luogo, l’Europa non si coordina dove è importante. Le strategie industriali oggi – come si vede negli Stati Uniti e in Cina – combinano molteplici politiche, che vanno dalle politiche fiscali per incoraggiare la produzione nazionale, alle politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali, alle politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento. Nel contesto dell’UE, collegare le politiche in questo modo richiede un alto grado di coordinamento tra gli sforzi nazionali e comunitari. Ma a causa del suo processo decisionale lento e disaggregato, l’UE è meno in grado di produrre una risposta di questo tipo. Le regole decisionali europee non si sono evolute in modo sostanziale con l’allargamento dell’UE e con l’aumento dell’ostilità e della complessità dell’ambiente globale che dobbiamo affrontare. Le decisioni vengono in genere prese questione per questione, con molteplici veti lungo il percorso”.
Un cambiamento di rotta all’orizzonte rispetto alle scelte operate negli ultimi 30 anni all’insegna del pareggio di bilancio, della contrazione della spesa pubblica e dei processi di delocalizzazione che hanno portato interi ambiti della produzione ad essere dislocati proprio dove il costo del lavoro risultava inferiore e minori le tutele collettive.
Merito e produttività
Ma sono proprio le culture del merito e della competitività i fari guida dei processi analizzati da Draghi e ritenuti indispensabili per il rilancio della Ue. La odierna e futura competitività non sarà legata quindi alla riduzione del costo del lavoro ma ai processi tecnologici che impegneranno gli stati nazionali a reperire risorse svuotando il welfare, la previdenza pubblica per indirizzare fiumi di denaro verso i settori giudicati emergenti.
Viene quasi da ridere se pensiamo che lo stesso Draghi, uno dei padrini delle politiche della austerità, è stato anche fautore della concorrenza interna ai paesi Ue che ha di fatto ritardato la nascita di concentrazioni industriali e finanziarie delle quali oggi la Ue necessita se non vuole essere schiacciata dal colosso imperialista Usa.
La svolta green
L’Europa vive oggi una grave crisi di approvigionamento energetico e per questo sta ripensando al nucleare per non creare eccessiva dipendenza dalla Cina come è accaduto per decenni rispetto alla Russia.
La svolta green non sarà alternativa in toto agli idrocarburi ma resta innegabile che proprio la svolta delle auto elettriche veda in grave ritardo i paesi europei e la stessa Germania che annuncia, per la prima volta, la chiusura di tanti siti produttivi nel settore meccanico. Particolarmente rilevante è la tendenza alla guerra e all’economia di guerra ove si parla di investire risorse e ricerche per la sicurezza comunitaria, l’idea è quella di unire le aziende belliche nazionali costruendo sinergie e prodotti comuni per competere con il made in Usa. Queste politiche determinano il progressivo aumento delle spese militari a mero discapito di quelle sociali, della spesa previdenziale e delle politiche salariali.
L’esercito europeo
Da qui nasce anche il progetto di un esercito europeo che in proprio, e con la Nato, sia presente nelle aree nevralgiche del Globo per depredarle dei prodotti necessari per le nuove tecnologie.
E si comprende bene la posta in gioco quando Draghi parla di riformare la stessa Ue come stato centralizzato per centralizzare in poche mani i processi decisionali, uno Stato insomma che sappia investire nell’economia di guerra e non abbia punti deboli tra i quali la democrazia partecipativa ai processi decisionali. E’ quindi in atto una svolta autoritaria e militarista della Ue, non senza una controriforma degli aspetti decisionali con il voto a maggioranza qualificata su tutte le questioni dirimenti, con un grande stato comunitario disposto a rispolverare keynesismo militare e intervento pubblico, a tollerare un debito comune al fine di sviluppare innovazione tecnologica, economia green e industria militare. E quando , solo pochi anni or sono, sostenevamo che il documento denominato Bussola Europea era l’inizio di una nuova era colonialista e imperialista europea il movimento pacifista italiano evitava di affrontare il problema perdendosi in sterili dibattiti ideologici sulla non violenza.
L’asset finanziario
Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la capacità di difesa dell’UE, il tasso di investimento totale in rapporto al PIL dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del PIL dell’UE all’anno, fino a raggiungere i livelli registrati negli anni ’60 e ’70. Per fare un paragone, gli investimenti aggiuntivi forniti dal Piano Marshall nel 1948-51 ammontavano annualmente a circa l’1-2% del PIL dei Paesi beneficiari. Questa relazione contiene simulazioni della Commissione europea e del FMI che valutano se un aumento così massiccio degli investimenti sia macroeconomicamente sostenibile e, in caso affermativo, come l’Europa possa sbloccare investimenti di queste dimensioni. I risultati suggeriscono che la spinta agli investimenti possa essere effettuata senza che l’economia si trovi in difficoltà con l’offerta, e che la mobilitazione dei finanziamenti privati sarà fondamentale a questo proposito. Tuttavia, è improbabile che il settore privato sia in grado di finanziare la maggior parte di questi investimenti senza il sostegno del settore pubblico. L’aumento della produttività sarà fondamentale per allentare i vincoli sullo spazio fiscale per i governi e consentire questo sostegno. Ad esempio, un aumento del 2% del livello di produttività totale dei fattori entro dieci anni potrebbe già essere sufficiente a coprire fino a un terzo della spesa fiscale richiesta. Le implicazioni principali per l’UE sono due. In primo luogo, sarà essenziale integrare i mercati dei capitali europei per incanalare meglio gli elevati risparmi delle famiglie verso investimenti produttivi nell’UE. In secondo luogo, quanto più l’UE è disposta a riformarsi per generare un aumento della produttività, tanto più facile sarà per il settore pubblico sostenere la spinta agli investimenti. Questo collegamento sottolinea perché l’aumento della produttività è così fondamentale. Ha anche implicazioni per l’emissione di beni comuni sicuri. Per massimizzare la produttività, sarà necessario un finanziamento congiunto per gli investimenti in beni pubblici europei fondamentali, come l’innovazione rivoluzionaria. Allo stesso tempo, ci sono altri beni pubblici identificati in questa relazione – come la spesa per la difesa o le reti transfrontaliere – che non saranno forniti senza un’azione comune. Se le condizioni politiche e istituzionali saranno soddisfatte, questi progetti richiederanno anche un finanziamento comune”.
Chiudiamo sugli aspetti finanziari e sulla emissione di asset sicuri comuni per finanziare progetti di investimento congiunti, parliamo di una finanza destinata a fare la parte del leone nella futura Ue ponendo fine al contenimento del debito che per anni è stato il faro guida delle politiche europee sotto la guida della Germania che oggi invece paga il maggiore scotto derivante dalla guerra in Ucraina.
Federico Giusti
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