di lorenzo merlo

Un’emozione contiene la coscienza, il tempo e lo spazio, le tre dimensioni sulle quali la scienza ha deterministicamente ridotto il potere dell’uomo.

Diversamente da quanto la cultura illuminista-materialista-scientista ci induce a credere, la realtà non è univoca se non entro la dimensione imposta dalle regole autoreferenziali scaturite da quella stessa cultura. Corrisponde invece a un tessuto creativo, la cui trama e il cui ordito hanno carattere magico e al telaio, senza saperlo, i tessitori siamo noi.

Ma, in caso scoprissimo di essere gli inseminatori, vedremmo la realtà come nostra figlia. Allora, per quanto sottile sia l’attimo rivelatore, potremmo riconoscere anche che la memoria non corrisponde a dati residenti in qualche landa cerebrale, ma a effimeri dati cangianti e latenti, che l’emozione coagula e che noi crediamo così di constatare osservando. Vale a dire che la memoria è relativa all’emozione che la permette. O la impedisce.

La memoria e realtà non sono fatte di dati, ma di emozioni. Un’emozione è in grado di radunare dei “dati” e ci trasporta nel passato o ci proietta nel futuro.

E se a, causa di un trauma o di un mancato apporto d’ossigeno, il servizio di una certa zona dell’encefalo viene a mancare e la memoria viene meno, questo non basta per credere che, al contrario di quanto appena scritto, in essa fossero residenti i dati che la permettevano?

La risposta è: no.

Anche un’amputazione di un arto, un rientro dal coma, un trauma devastante al corpo e così via, modificano il modo di pensare, le credenze, l’identità. Così per il cervello, niente affatto sede di mente, intelligenza, coscienza, doti, tutte disponibilità che riguardano il corpo, non una parte di esso.

Quando si arresta la circolazione coronarica, il cuore ne risente e così la persona non può più disporre dell’identità psico-fisica precedente, così per un trauma al cervello perdiamo neuroni e glia e l’identità che le relative sinapsi, insieme alle altre, permettevano.

Le righe che seguono possono essere intellette nel loro intento anche attraverso la seguente prospettiva. Se riusciamo a essere presenti, cioè a osservare il momento in cui viene compiuta una scelta, ne possiamo riconoscere il bisogno biografico. È a mezzo di questa dimensione magica che riconosciamo la strada di casa, i conoscenti, il lavoro che facciamo, il ruolo che occupiamo. Non perché la memoria ce lo permette, ma perché la spinta biografico-identitaria lo richiede e consente.

Il martello del fabbro infastidisce tutti tranne chi ne vede l’azione, che significa prevederne, anticiparne l’effetto sonoro. Si può dire che la previsione, l’anticipazione ci permette di essere la realtà che sta avvenendo e non provarne l’alieno fastidio.

Lo stesso giochetto magico avviene costantemente quando ciò a cui ci sembra di assistere si confà a noi. Come in una sorta di pre-realtà, inconsapevolmente facciamo affidamento, ci aspettiamo e prevediamo ciò che un impercettibile istante successivo vediamo esistere.

Quando, invece, viviamo la sorpresa, non solo negativa, di disappunto, dispiacere e pena, ma anche positiva, come un eureka, un’imprevista soddisfazione, è perché il giochetto, semplicemente, non è implicato.

Accreditare questa prospettiva occulta è alla portata di tutti. O meglio, per essere precisi, di tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della dimenticanza: l’assenza in noi dell’emozione che ci sarebbe necessaria per riannodare la memoria del ruolo con cui ci eravamo sempre identificati.

Per opera della dimenticanza, ciò che riteniamo di sapere incondizionatamente sparisce dal radar, cioè dal mondo conosciuto della nostra identità.

Ugualmente al contrario. Il tipo di emozione che ci pervade in occasione di un luogo nuovo, un sentiero, un albergo, una città, dove strade, corridoi, scale e palazzi non ci danno alcuna direzione, non ci permette di ricostituire la realtà cammin facendo. Quella realtà che permetterebbe la memoria, come per la dimenticanza, non può avvenire.

E ugualmente penserei a proposito di quanto chiamiamo – nel bene e nel male – talento personale e predisposizione, che potrebbe fare capo alla somma epigenetica degli avi, e divenire nostro tratto distintivo quando ci cogliesse la medesima emozione già vissuta dai nostri predecessori, diversamente il talento rimane inespresso o tarpato.

Qualcosa di corrispondente a quanto detto può essere riferito anche ai cosiddetti bambini prodigio che fin dalla tenera età dimostrano abilità e competenze fuori ordinanza. Quello che suona Mozart, il poliglotta, eccetera. E anche coloro che uscendo dallo stato comatoso riferiscono di conoscenza mai esperite nella loro vita precedente al coma stesso.

Anche la meditazione ha a che fare con l’emozione che concede la memoria. Se in essa possiamo vedere un’azione ecologica dai vincoli mondani, possiamo anche arrivare a riconoscere che a mezzo di essa si arriva a rivivere l’emozione dei traumi mai superati, percependo che erano stati tali a causa della nostra egoistica interpretazione di essi; ma anche l’emozione della nascita, e quelle vissute nelle cosiddette vite precedenti. Meditazione quindi dal potere terapeutico a causa dell’accesso che essa consente alle esperienze rivissute.

Il processo creativo rispetta ciò che vale per la memoria. Richiede infatti un’emozione proiettiva di un nostro sentimento che, come su una sorta di schermo olografico, ci mostra la realtà che ancora dobbiamo realizzare. È a quel punto che dalle mani, dai pensieri, dalla tastiera, dal corpo si configura la creazione, costi quel che costi, ovvero con il coraggio, la serenità, la forza, la determinazione, la dedizione, la concentrazione che richiede.

Se siamo d’accordo che un’emozione è un tunnel psicologico, una camicia di forza che non ammette scelte a essa estranee, e se possiamo riconoscere che le emozioni non sono solo quelle sopra le righe che ci impongono comportamenti estranei alla nostra linea prediletta, ma che questa stessa è tale, solida e vera da mano sul fuoco, sempre a causa di un’emozione che ce lo fa credere. Significa che siamo sempre dentro un’emozione, che essere vivi ed essere emozionati corrispondono. Anche l’etimologia pare conforti questa equazione esistenziale. Se l’emozione è tale perché muove, anche la vita lo è.

Significa che quando un’emozione – più forte e diversa – scaccia quella in cui ci troviamo, la realtà che ci stavamo aspettando di incontrare, puff, non c’è più. Sostituita da un’altra, voluta dalla nuova emozione.

Le amnesie ne sono una buona rappresentazione. Chi ne ha esperienza può riscontrare come, quando esse ci rapiscono, iniziamo a chiederci dove ci troviamo, come sia possibile che edifici e strade oppure, tavoli e tende, non ci dicano più niente. Domande che a loro volta svaniscono appena l’emozione utile, tassativamente corrispondente alla nostra biografia, si ripresenta in noi.

Come l’amnesia, anche la martellata costituisce un buon esempio della configurazione della realtà che stiamo cercando di delineare.

Il dolore per la martellata che ci siamo dati sul dito, puff, sparisce se un momento dopo arriva lo tsunami, il terremoto o qualunque altra cosa che scacci l’emozione del dito in frantumi.

Dunque amnesia, martellata, o qualunque altra circostanza che ci sottragga dall’identità e ruolo in cui siamo inconsapevolmente identificati, dovrebbe apparire pertinente al giochetto che seppur magico è totalmente umano praticato e conosciuto. Lo si vede a proposito del soprapensiero, esperienza presente in tutti noi. Esso ci dice che capita di essere dentro un’emozione estranea rispetto alla situazione. In soprapensiero possiamo non sentire gli squilli del telefono, passare col rosso, imboccare un senso unico, dimenticare mille volte le chiavi di casa. Significa che, a volte, capita di entrare in un’emozione che configura una realtà alla quale non possiamo che dare credito, sebbene diversa ed estranea da quelle in quell’ambito comune e condivisa da tutti gli altri.

Riferire alle emozioni in cui ci troviamo il senso della vita, che di fatto esprimiamo costantemente, permette di riconoscere in quale buco nero spesso si trovano le nostre relazioni a causa dei giudizi con i quali costantemente le investiamo. Più esattamente, quando siamo identificati nel giudizio che esprimiamo, come stessimo rispettando una legge superiore, certamente vera e universale.

Chi vuole può riconoscere che tale presunta verità universale si erge su due basamenti: sull’inconsapevolezza che l’altro – il giudicato – si trova entro un’altra emozione, differente dalla nostra, e della quale siamo ignari; e sull’arroganza che la nostra interpretazione del mondo – sempre dovuta, rispettosa emanazione della nostra emozione – debba essere anche dell’altro.

Centrale in questo gioco di prestigio che ci facciamo da soli senza conoscerne il trucco, è l’accredito, la fiducia, la fede, l’essere ciò che si fa, si pensa, si crede. Questo elenco, da un lato è composto di sinonimi (o quasi), dall’altro descrive la condizione o lo stato in gradiente crescente. Indipendentemente da quale voce dell’elenco si voglia ritenere più adatta, è utile osservare come, per mezzo loro, il rischio di realizzare il nostro intento, la realtà che vorremmo, tenda a crescere e la realtà relativa a compiersi. Quanto meno nella misura in cui il nostro gradiente di talento specifico, di motivazione e di circostanze non sfavorevoli, insieme alla visione di sé in ciò che ancora non è, lo supportino.

Con l’allenamento si può penetrare la falsa corazza della realtà come oggetto, fino a constatare che le dinamiche appena descritte sono connaturate alla nostra esistenza. Tuttavia, come l’esempio del dito martellato può essere utile per avviarsi in questa ricerca, fino a riconoscerla come banale, da inverosimile che pareva, anche in questa occasione è utile un esempio eclatante.

Quando l’esordiente azzurro viene intervistato a fine partita, cosa dice? “Ho sempre sognato questo momento”. Motivazione, circostanze favorevoli, talento, fiducia, identificazione con il ruolo di calciatore, immaginazione di essere un campione, sono dentro e rivelati da quella battuta. Limandone la misura, il colore e la forma arriviamo a tutte le volte che l’abbiamo pronunciata noi.

C’è un’altra prospettiva dalla quale si può fare luce sull’istante magico che ci sfugge e che non ci educano a vedere. Un fuggevole tempo in cui Heidegger in Contributi alla filosofia (Dall’evento) ha visto l’avvento della realtà e che ha chiamato evento. Con questo termine, il filosofo tedesco intende il momento in cui insorge in noi il pensiero con il quale descriviamo la realtà che, da quell’istante inavvertito, è realmente così come la raccontiamo.

Ogni questione è ambitale, autopoietica, si crea mentre la si pronuncia e la si pronuncia in modo da poterla creare e alimentare, e in modo che sia confacente a noi stessi.

“Evento: la luce sicura dell’essenziale permanenza dell’Essere nell’estremo orizzonte dell’intima necessità dell’uomo storico”.

Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), Milano, Adelphi, 2007, p. 58.

È una prospettiva che si avvale di quanto già detto poco sopra e riguarda ancora il potere dell’emozione. Essa ci impone il suo copione, la sua regia. Quando ciò avviene, quando un’emozione ci imbriglia, si verifica un’altra magia: la ricostituzione di quanto già esperito e quindi la memoria che ne abbiamo. Dunque non una memoria di dati immagazzinati come vorrebbe l’impalcatura scientifica, ma una latenza dal carattere magico, pronta a riconfigurare il passato. In questo processo insiste anche una critica all’ordinario concetto di tempo lineare, e perciò del passato e del futuro, dando vita a un presente eterno, dal quale scaturiscono tutte le suggestioni vissute come realtà. E disegnando, perciò, una realtà comprensibile su uno sfondo quantico: che si coagula al momento e si mostra in funzione di chi la sta esperendo. Così come il montaggio sapiente di un film ci fa credere di assistere a una storia, mentre siamo a noi, se attenti (Foucault, la verità è nel discorso) a concepirla.

Anche la dimensione fenomenologica e l’analisi razionale sottendono a un’emozione, senza la quale entrambe quantisticamente decadono per tornare all’infinito, disponibili per l’eternità al giusto richiamo di qualcuno.

Ugualmente, per abbracciare un’ideologia ci vuole l’emozione che induca a eleggerla e a non vederne le criticità, ben chiare, invece, a chi vive entro un’altra emozione.

L’emozione opportuna ci costringe a qualunque condizione, scelta e stato. E non c’è bisogno di credere a niente per vederne l’effetto, basta osservare.

Una lettera d’amore – anche se corrisposto – andata dimenticata resta tale se l’emozione della ricomposizione della memoria non avviene. Cosa che può accadere anche rileggendola. Cosa che indicherebbe che al momento della prima esperienza non eravamo stati attraversati da alcuna emozione. Che eravamo rimasti entro quelle di base o in altre più forti.

Una macchinina dei giochi d’infanzia, che torna fuori dalla scatola in solaio dopo tanta vita può riportarci esattamente in quei momenti di vita spensierata. Così un colore di moda anni prima che ricompare nel presente. O, ugualmente, una melodia.

Forse fanno parte del discorso anche il colpo di fulmine e il déjà vu. Avvento nel presente di esperienze che sono nella carne – non nel cervello – che ci costituisce, discendente di vite passate. Che passate non sono, la vita è una soltanto, per noi e per tutto ciò che è.

Un infinito, il cui mutamento non è limitato ad una caotica rivoluzione delle entità che lo compongono, nonché ai loro stocastici scontri, ma che riduciamo ad un cangiante allineamento e selezione personalizzata di alcune di queste, che avviene e si cristallizza nel momento in cui ne siamo al cospetto, e avvengono nel pensiero.

L’emozione può essere rappresentata da un ologramma e anche dal magnete. Come ologramma in quanto essa ci permette/impone di riconoscere una certa realtà solo in funzione dell’inconsapevole angolazione (emozionale) con la quale la stiamo osservando/concependo.

Come magnete in quanto impone agli elementi della realtà concepita, un orientamento univoco, rispettoso della nostra esigenza, come nei confronti della segatura di ferro.

L’esempio dell’aguzzino e della vittima potrebbe essere utile. Nonostante i fatti siano gli stessi le due figure li raccontano diversamente.

A questo punto, si può dire che la realtà si realizza secondo la nostra presenza e disponibilità, anticipandola, sia che la si voglia collocare nel passato, nel presente o nel futuro.

Diversamente, ogni martellata del fabbro punge le orecchie, ogni pianto di bebé in aereo diventa insopportabile, ogni ballo, senza esserne il ritmo, diviene e resta imballabile.

Di basnews

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito web utilizza i cookie per migliorare la facilità d'uso. Se utilizzi il sito accetti l'utilizzo dei cookie.