Assistiamo, in questi mesi di guerra, alla continua evocazione dell’idea di Occidente. È una riscoperta di comodo, utile solo a Putin, da un lato, e a Biden, dall’altro.
Come tutte le idee che puntano a fare tendenza, questa riscoperta ha bisogno del suo apparato culturale. Che in questa occasione si presenta davvero poderoso, figurandovi il fior fiore dell’intellighenzia atlantista. Tra i tanti, spicca Federico Rampini, di cui ci siamo già occupati recentemente, ma che merita un supplemento di analisi perché il suo recentissimo libro, dall’eco solo apparentemente spengleriana, “Suicidio occidentale” , ci offre una rappresentazione interessante di questo neo-occidentalismo di comodo, delle ansie che lo abitano e degli equivoci che lo attraversano.
Prima però vediamo in che senso la (re)invenzione dell’Occidente fa comodo ai massimi leader mondiali, cui dobbiamo aggiungere anche Xi Jinping. Nel caso di Putin e del leader cinese, c’è la necessità di una linea di demarcazione ideale per cementare l’intesa geoeconomica e geopolitica, non solo tra Russia e Cina, ma anche tra queste due potenze e importanti Paesi asiatici come India, Pakistan, Indonesia. E ciò al fine di staccare tutte queste aree dall’influenza americana. Questa linea di demarcazione è appunto l’Occidente cui contrapporre un’idea di Asia e di Eurasia come nuovo asse attorno a cui far ruotare la politica e l’economia del mondo.
Non si tratta di una vaga suggestione, ma di un programma di lavoro, come testimoniato dall’attivismo, in queste ultime settimane, di Lavrov e del suo omologo cinese, Wang Yi, tra le capitali asiatiche. E come testimoniato anche dall’astensione di diversi Paesi nei documenti di censura della Russia in sede Onu. Poi si può certo sempre dire che è arduo, se non impossibile, tenere insieme, in uno stesso fronte, Paesi tra loro nemici come India e Pakistan. E si può anche rilevare che la Cina potrebbe non avere interesse ad accentuare le linee di faglia mondiali, linee tali da danneggiare i suoi commerci. Ma tant’è: un progetto si sta delineando e passa per il rilancio, come termine di confronto-scontro, della nozione di Occidente. In ogni caso, Cina e Russia sembrano ancora possedere una visione dei tempi lunghi della storia, che le frenetiche e nevrotiche società occidentali, tutte rivolte ai tempi brevi, paiono aver espulso dal proprio orizzonte.
E veniamo a Biden. Il suo interesse alla “rinascita” dell’Occidente è ancora più smaccatamente strumentale rispetto a quello dei suoi competitors globali. Agli Usa fa quantomai comodo evocare il mito dell’Occidente per allargare il fronte contrario all’ascesa delle potenze eurasiatiche. Non è una tendenza dell’oggi. È un’onda che parte già dalla fine dall’amministrazione Obama , quando gli Usa cominciano a sperimentare la crisi della globalizzazione e le conseguenti, inedite difficoltà della loro proiezione verso il Pacifico.
Gli Usa constatano che i loro progetti di espansione commerciale verso quell’area sono contrastati dall’affermazione, non solo economica ma geopolitica della Cina. Al tempo di Trump, gli Usa non pensano di avere ancora bisogno dell’Europa. Il cambiamento avviene con Biden, il quale capisce la necessità di riannodare i vincoli con i vecchi alleati. Di qui la rinascita dell’identità euro-americana e atlantica.
Siamo a un passo dalla “rinascita” dell’Occidente. Che rimane comunque una categoria storica e ideale: non la si può facilmente ridestare dall’oggi al domani. Affinché ciò avvenga, occorre un trauma. E un trauma arriva. Anzi ne arrivano due: la precipitosa e ignominiosa fuga da Kabul e poi l’intervento russo in Ucraina.
Le fabbriche della neo-ideologia vengono riaperte. E gli intellettuali cominciano a lavorare a pieno regime. Una nuova narrazione occidentalista viene imposta sul mercato delle idee. A differenza della narrazione precedente, non è un racconto trionfalistico ma vittimistico: i nemici dell’Occidente sono all’offensiva perché hanno capito che la nostra civiltà è in decadenza.
Ed è qui che arriva il libro di Rampini, che sposa in pieno e rilancia questa narrazione: «Altrove avanza un ordine mondiale alternativo (all’ordine imperniato sull’Occidente n.d.r.), quello di Xi Jinping e Vladimir Putin. L’Ucraina rischia di essere solo un assaggio di quello che potranno fare. La loro analisi sul nostro declino terminale è confortata da tutti i segnali di decomposizione interna che racconto in questo libro».
E quali sarebbero questi segnali? Rampini è bravo nello spostare il discorso, dalla geopolitica e dalla geo-economia (normalmente noiosi) , ai fenomeni culturali e di costume (più commestibili). L’autore mette sotto i riflettori l’avanzata della “cancel culture” e della cultura “woke” (il “risveglio” degli “oppressi” dalla dominazione dell’etnia bianca). In effetti si tratta di fenomeni preoccupanti. «Un pensiero unico domina nelle grandi università americane, detta legge negli atenei più prestigiosi (…). A decidere chi ha diritto di parola e chi no sono frange radicali dell’antirazzismo di Black Lives Matter, del femminismo di #NeToo ».
Quello denunciato da Rampini è un fastidio largamente condiviso ed ha in qualche modo a che fare con l’idea che la vulnerabilità in campo etico-culturale si traduca anche in un indebolimento strategico e geopolitico. Senonché, a guardar bene, l’autore non parla della crisi dell’Occidente in quanto tale ma della crisi dell’America. E qui sta la sua ulteriore abilità. L’abilità di stabilire l’inseparabilità tra una «certa idea dell’Occidente» e il «ruolo della sua nazione più forte», cioè gli Usa, manco a dirlo. In realtà, la crisi dell’Occidente è soprattutto (e da lungo tempo) la crisi dell’Europa che, nei decenni dell’egemonia americana, non ha saputo pensarsi come entità capace di una sua autonoma visione geopolitica e culturale. Di certo, oggi gli interessi tra la due sponde dell’Atlantico coincidono solo parzialmente. E non sarà una guerra alle porte dell’Ue a farli magicamente convergere.
C’è una domanda a cui, né Rampini né gli altri bardi del “rinato” Occidente sanno rispondere: perché mai il destino di 450 milioni di persone, tali sono gli abitanti dell’Ue, devono dipendere dalle decisioni prese a migliaia di chilometri dalle loro case? E chi decide dei nostri destini non sta solo a Mosca. Ma anche a Washington. Di un Occidente siffatto possiamo tranquillamente fare a meno.
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