di lorenzo merlo
L´incantesimo è una condizione che difenderemo a dispetto di ogni evidenza che ce lo voglia rivelare.
Mondo oggettivo
Sia che si tratti di tirare la lima che di impiegare un linguaggio, con la pratica si realizza e modifica la relazione con l’ambiente. In una parola si tende alla funzionalità. È una tendenza generata dalla dimensione creativa di tutti gli uomini tranne di coloro che l’hanno prevaricata con dosi cavalline di razionalismo e scientismo.
L’affermarsi della funzionalità, tende ad essere tanto più riscontrabile, quanto più il mondo in cui siamo immersi ci è famigliare. Fanno testo canonico il banco di un’officina, la disposizione degli attrezzi di una cucina, come pure il gergo di un gruppo, efficace e valido solo al suo interno, quindi anche una lingua intera, nonché qualunque suo dialetto.
Il concetto assai fenomenico di funzionale, sta al centro della relazione con l’altro e l’ambiente, ne è una sorta di conseguenza. Esso però, è spesso involontariamente frainteso con quello di razionale. Un equivoco discendente dall’atteggiamento scientista della cultura che ci avviluppa. Questa, ha l’implicita e inconsapevole pretesa di estendere alle relazioni umanistiche la rigida logica meccanicistica. Una forma di cecità e perciò un grosso guaio formativo, evolutivo e relazionale, tuttavia non oggetto del presente articolo.
La tendenza alla funzionalità ha comportato l’escogitazione di un linguaggio che attribuisce al cosiddetto mondo esterno proprietà che invece sono insite nella nostra relazione – dipendente da bisogni e sentimenti del momento – con esso. Sta in questo il gap immanente del meccanicismo sui nostri pensieri e linguaggio, quindi sul comportamento. Totalmente ignari del processo di narrazione della realtà con i colori della nostra tavolozza e col gradiente di talento descrittivo di cui disponiamo, giungiamo, sic et simpliciter, a creare il presunto mondo oggettivo. Un mondo reificato in materia, in cui esiste l’ovvio e la verità, almeno per la fonte che lo descrive e per chi ne è d’accordo. Siamo quindi ciechi al principio che la realtà sta nella relazione come Heidegger e la fisica quantistica hanno cercato di fare presente. Se per il pensatore tedesco, una brocca esiste non per contenere e mescere acqua ma perché c’è l’acqua e il bisogno di assumerla e, per la seconda non siamo che creatori di realtà, per entrambi siamo l’espressione dell’essere. Un’affermazione olistica, non accessibile nel suo significato finché si resta preda nella rete della concezione antropocentrica del mondo. La cultura materialista che ci vuole invece indipendenti o senza padre ha, come possiamo constatare soprattutto in questi ultimi tempi, la sua stessa, infernale, disperazione.
Ritenere che l’ovvio e la verità che stiamo vedendo siano evidenti anche al nostro interlocutore, ne fa due caposaldi del mantenimento della storia come conflittualità latente, pronta a decantare alla minima scintilla di equivoco o scontro di esigenze. È la prima conseguenza del muoversi attraverso l’interesse personale, ovvero ciò che, oggi ha valore assoluto, s non a caso posto in cima alla piramide del liberismo.
Indipendentemente da tutti gli ma è ovvio no? e quindi da tutte le verità che ognuno di noi ritiene di osservare nel mondo, come fosse uno spazio fermo, in cui entrare e gironzolare, ma soprattutto come se quello spazio fosse così, come lo stiamo vedendo, anche per tutti gli altri, fatichiamo a riconoscere l’inopportunità della concezione oggettiva del mondo quando si tratta di relazioni aperte, umanistiche, nelle quali gli interlocutori, al pari di noi stessi, sono posizionati in punti del loro personale universo che non sappiamo, che non vediamo, che non sospettiamo. Chiusi nel tubo cieco del mito del razionalismo, crediamo infatti che il nostro discorso basti a portare l’interlocutore sulla nostra stessa piazzola da cui guardiamo la vita. Con l’aggravante che quella piazzola, che concepiamo materiale è, di fatto e come detto, conforme allo stato d’animo, alle esigenze, ai valori, eccetera di chi la occupa. Tutto ciò induce gli uomini a non vedere il grottesco insito nell’esportazione della democrazia, della propria idea e posizione. Statale o individuale, la cecità è la stessa.
Imbambolati dall’idea che un’affermazione razionalmente pronunciata contenga comunicazione, siamo indotti a prendere alla lettera gli idiomi impiegati, ovunque questi vengano funzionalmente impiegati, ma con accezione differente. Ottima premessa per complicare le relazioni. Così, si possono impiegare anni e caraffe di bile, prima di arrivare a riconoscere che dire domani in molta Africa e non solo, non vuole dire domani in senso stretto, ma lato, cioè più avanti, poi, aspetta ancora. I registri delle culture sono differenti, così come quelli delle persone. Una banalità che pare segreta a tutti.
Si può quindi riconoscere in che termini il linguaggio contenga la realtà che crediamo di osservare, e come l’abitudine e l’assuefazione ad esso comporti l’incantesimo che quanto affermiamo corrisponda effettivamente ad essa. Il senso di questo stesso articolo, intelligibile solo dall’interno della medesima bolla emozionale che mi contiene, non fa eccezione.
Foucault diceva che la verità è nel discorso. Per quanto si riferisse a prospettive minute, per esempio ideologiche, rispetto a quella qui considerata, che potremmo chiamare culturale-occidentale, la formula del sociologo francese contiene la stessa prospettiva che ha generato questo articolo. Questa, è rivolta a narrare l’origine del sortilegio di cui, in maggioranza, siamo prigionieri. E nel quale, occasionalmente, ricade anche chi ne è emancipato, per esempio, giocando la carta del luogo comune, quando vogliamo gettare un salvagente al nostro discorso, o quando edulcoriamo le nostre parole con concetti copiati, non ricreati.
Mondo relazionale
L’esigenza al nostro discorso, qui inteso come noi stessi, come ciò che crediamo di essere e sentiamo di volere, ci guida estraendo dall’infinito che tutto contiene, gli elementi funzionali ad esso. Tutti gli altri sono cibo tossico, terremoti per la nostra stabilità, fosse anche precaria, in quanto in essa e solo in essa ci riconosciamo. È quello il momento che vediamo la realtà come fosse effettivamente di fronte a noi. È a quel punto che il sortilegio del mondo oggettivo fiorisce in tutto il suo potere assoluto. È quello il punto di cui prendere coscienza affinché non si confonda la funzionalità del linguaggio con la realtà, affinché si possa poi arrivare a riconoscere come e quando la investiamo di noi stessi ovvero, arrivare all’evidenza che non c’è alcuna stanza in cui entriamo, che mente e materia non sono distinte, se non nell’infestante erbaccia scientista-materialista che ci garrota il potere creativo.
In quel punto possiamo così assistere in che misura la relazione col mondo ne traccia i tratti, ne sia di fatto l’origine. Nell’inestinguibile relazione con esso, seguitiamo a dipingerlo secondo il nostro potere e talento, proprio come mille pittori disegnano mille alberi diversi pur osservando tutti la medesima pianta. Averne consapevolezza ci permette di dominare il prossimo. I timonieri della comunicazione ben lo sanno, e lo fanno. Mantenere alta la manipolazione delle persone è la prima esigenza per la realizzazione del mantenimento del dominio, del potere. È la magia nera. Ma c’è anche quella bianca, cioè realizzata attraverso la consapevolezza di quanto gli altri siano dei noi stessi in altro tempo e modo, di come l’assunzione di responsabilità cambi le relazioni e quindi il mondo.
Oggettivo o relazionale
In funzione del linguaggio adottato, a sua volta dipendente dalla consapevolezza che esso è creatore di realtà, disponiamo del potere di soggiogare il prossimo o elevarci dalla storia di conflitto e sofferenza, attraverso l’abbandono dell’interesse personale tout court. Il primo contiene dunque la storia così come la conosciamo e il dolore ad essa implicato, l’altro il suo superamento attraverso l’emancipazione dal conosciuto. Significa constatare la bolla logico-razionale che ci rinchiude. Uno ne alimenta il sortilegio e mantiene lo status quo, l’altro comporta la frantumazione del diaframma che ci contiene e ci separa dal resto del cosmo. Il primo ci vincola ad esistere attraverso e nel giudizio, il secondo tende a scatenare il nostro potere creativo, la lucidità per riconoscerci all’origine del nostro malessere/benessere.