di lorenzo merlo

La Magia, per chi ha riconosciuto il suo contenuto energetico non è altro che la Scienza suprema. Questa, assolutamente fraintesa e inopportunamente concepita dalla modalità scientista-materialista-determinista, non è che una retrograda, se non pericolosa, barzelletta e realtà assurda, per la quale non c’è ragione di occuparsene, quindi reietta. Così, non ci risulta il carattere relazionale della realtà a favore della sua natura pretestuosamente oggettiva e dei suoi attributi che esisterebbero indipendentemente da noi.

Per magia

“Ma prendere sul serio la meccanica quantistica, riflettere sulle sue implicazioni, è un’esperienza quasi psichedelica: ci chiede di rinunciare, in un modo o nell’altro. a qualcosa di quanto ci sembra solido e inattaccabile nella nostra comprensione del mondo. Ci chiede di accettare che la realtà sia profondamente diversa da quanto immaginavamo”. (p, 15) [Vedi Note per la fonte di tutti i brani citati.]

Se candeggiati dall’intossicazione scientista-materialista, si può riconoscere in che termini le dinamiche filosofiche presenti ed evincibili dalla fisica quantistica siano, nel loro modo di agire, sovrapponibili a quelle della magia o della realtà energetica, relazionale o, meglio e più semplicemente – o magicamente – della conformazione della realtà. Cioè, della realtà stessa.

“La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo materialismo della fisica settecentesca”. (p, 134)

“Non ci sono fenomeni quantistici in laboratorio e fenomeni non quantistici altrove: tutti i fenomeni sono in ultima analisi quantistici”. (p, 142)

La narrazione del mondo esaurito nel misurabile ha le sue verità (La verità è nel discorso. Foucault) (1), che questa cultura concepisce però come assolute. È un abbaglio, che la filosofia sorta dalla fisica quantistica riduce da definitive a parziali, esattamente come noto da millenni nell’ordine della scienza suprema.

Le consapevolezze che entro il dualismo ogni proposizione è necessariamente limitata, che entro l’egocentrismo è necessariamente interessata, quindi faziosa in quanto destinata a sostenere se stessi, permette di riconoscere che ogni narrazione non è che un’agiografia di chi la esprime, basata sulla scomposizione dell’intero, in quanto non in potere di coglierlo.

Una storiografia siffatta è mossa dal movente di allontanare il crollo che la morte garantisce all’ego con cui siamo identificati. Una disfatta impossibile se emancipati dal dualismo, in quanto la morte, come una sedia, le siamo già, e così pure tutto il resto. Quelle consapevolezze, infatti, ci offrono un orizzonte altrimenti precluso, oltre il quale possiamo vedere e vivere l’unità degli opposti, gli altri come dei noi e il cosmo come energia, quella stessa che vibra in tutte le cose e che, in molta letteratura evolutiva è detta amore. Nonostante ciò comporti armonia, la diffusa concezione distorta sulla scienza suprema è così radicale da garantire, a chi la condivide, il diritto illuministico di estradarla dalla cultura, di ghettizzarla in enclave come un’untrice del male.

Nonostante la boriosa vanagloria con la quale la cultura analitico-logico-razionalista si pavoneggia, alla pari della diva del momento, puntando il dito in direzione della – secondo lei – vera conoscenza, essa, proprio essa, nient’altro che essa è all’origine del fraintendimento della natura della magia.

Esattamente come dicono tutte le tradizioni magico-sapienziali accreditare di verità le narrazioni mondane è impedirsi di vedere come queste non siano che ologrammi che compaiono solo e soltanto al nostro cospetto e secondo certa angolazione, fuori dalla quale scompaiono. A suo tempo Claudio Rocchi lo aveva raccontato liricamente. (2)

Ma ora, alla voce delle tradizioni si unisce quella della filosofia della fisica quantistica.

“Ma allora attribuire sempre e necessariamente proprietà a una cosa, anche quando non interagisce, è superfluo, e può essere fuorviante. È parlare di qualcosa che non esiste: non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni”. (p, 87-88)

L’egemonia del pensiero meccanicista è molto simile a quello progressista: senza coercizione, entrambi impongono ai loro sudditi, servi e idolatri, il pensiero unico. Se ne hai di non conformi sei fuori. Ah, cosa ti combinano i paladini della scienza e quelli della democrazia! Popper e Voltaire hanno di che soffrire.

Nonostante la prosopopea del pensiero razionalista, quale solo idoneo a condurci verso i confortanti lidi della verità, l’equivoco – non solo quello nei confronti della magia – infesta le relazioni come un’erbaccia immune alle sue medicine di presunta discernente saggezza. Così, i caldi arenili tropicali della conoscenza che pretende di garantirci, si rivelano essere un miraggio, evanescente suggestione della chiesa scientista, che si rivelano aride terre sterilizzate dal sangue della sofferenza e dei conflitti.

“C’è stato un momento in cui la grammatica del mondo sembrava chiarita: alla radice di tutte le variegate forme della realtà sembravano esserci solo particelle di materia guidate da poche forze. L’umanità poteva pensare di avere sollevato il velo di Maya: aver visto in fondo alla realtà”. (p, 12)

A patto di non interrompere il candeggio su citato, cioè l’emancipazione dalle regole culturali apprese a casa e a scuola, viste in tv e lette sui giornali e ricalcate dalla politica, per riconoscerne l’autoreferenzialità e per liberarsi dalla coercizione di creatività che implicano, è a disposizione di chiunque l’accesso alla prospettiva nella quale l’assolutismo logico-meccanicista cessa di mortificare l’infinito che siamo, per divenire semplice strumento funzionale per certi lavori amministrativo-regolamentati, ma inidoneo a fornire alcun servizio, se non quello dell’equivoco, quando si tratta di relazioni aperte. Dunque assai utile per muoversi entro un meccanismo chiuso, caratterizzato dalla presenza di regole note e condivise, ma inetto a muoversi in campo libero, che ne è l’opposto, cioè un territorio relazionale dove il nostro stato ne incontra un altro o si relaziona a qualcosa di sconosciuto.

Se l’equivoco è descrivibile anche a mezzo di emozioni differenti che contengono gli interlocutori, tale figurazione permette di comprendere come il significato che diamo a un’affermazione possa non passare indenne da deformazioni da una persona ad un’altra, cioè da un universo a un altro. Le emozioni sarebbero infatti forze, che generano in noi precisi universi personali, corrispondenti ai sentimenti e ai pensieri della coscienza. Nelle libere interlocuzioni tra due entità non sempre, anzi raramente, si toccano nel punto e nel momento funzionale alla comunicazione. Per alzare il rischio di contattare l’altro ente, più che la dialettica razionale torna utile quella dell’ascolto, più che il giudizio, l’accoglienza.

L’equivoco che, come detto da Marshall McLuhan e ribadito da Paul Watzlawick, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Gregory Bateson, Ernst von Glasersfeld e chissà quanti altri, regna nella comunicazione. Esso sorprende soltanto i razionalisti, convinti che una buona affermazione sintatticamente compiuta comporti comunicazione, ma non la madre, né il didatta, né il terapeuta. Il razionalista non vede né rispetta il gradiente di motivazione, né lo stato del destinatario della sua affermazione.

Ed è sempre lui, il razionalista, che davanti all’equivoco conclamato non ne fa scuola e preferisce giudicare. Non si mette a cercare l’origine dell’incomprensione: la mia affermazione era compiuta! Dice. No! Lui si accontenta, anzi, è soddisfatto di poter giudicare e valutare l’altro che non ha capito la sua perfetta affermazione. Così parla l’ignaro meccanicista, ovvero colui che ritiene ci sia un solo mondo per tutti e che tutti lo si stia vedendo come lo vede lui.

Altro che caldi lidi tropicali.

Il razionalista per ragioni di autostima, per parare il colpo della inspiegabile – direbbe lui – inefficacia della sua forbita e argomentata azione-affermazione, è costretto dai suoi schemi a rifugiarsi nell’attribuzione di responsabilità: è lui che non capisce, al contrario, il mago, nient’altro che il consapevole del potere delle emozioni e degli universi diversi che siamo o possiamo essere, ha in sé la chiaroveggenza per indagare le ragioni del fallimento della comunicazione tra infiniti.

Non solo. Egli osserva che, al fine della condivisione del discorso, l’accredito della fonte da parte del destinatario, è sostanziale. Egli vede lo stato permanente di latente mutamento di quegli infiniti, fino ad essere in grado di riconoscere quando e come mettervisi in contatto o rinunciare quando, a sua volta, sente di essere perturbato.

Un infinito, il cui mutamento non è limitato ad una caotica rivoluzione delle entità che li compongono, nonché agli stocastici scontri tra queste, ma ad un cangiante allineamento e selezione personalizzata di queste, che avviene (Heidegger)(3) e si cristallizza nel momento in cui ne siamo al cospetto, e avvengono nel pensiero.

“L’onda  evolve nel tempo seguendo l’equazione scritta da Schrödinger, solo fintanto che non la guardiamo. Quando la guardiamo, puff!, si concentra in un punto, e lì vediamo la particella.

Come se il solo fatto di osservare fosse sufficiente a modificare la realtà”. (p, 42)

È quello l’istante in cui l’emozione che ci avviluppa impone i suoi dictat selezionatori tra infiniti elementi e la conseguente concezione del mondo fondata sui pochi che ha scelto e alla relativa piatta e sterile – salvo per chi condivide la cernita – descrizione della realtà per quello che effettivamente è. Così fanno tutti i devoti all’attuale ordine culturale e della sua narrazione di realtà.

Nonostante l’evidenza che ci sia qualcosa da capire se tutti siamo allenatori, cioè se tutti abbiamo in bocca la vera descrizione, ciò non ci spinge a sospettare che stiamo adottando un sistema bacato, né ad indagarlo per scovare l’ontologia dell’equivoco. Ma, con la pistola fumante del giudizio e della valutazione, ci affrettiamo a cercare ulteriori selezioni dall’infinito a sostegno di quanto già affermato.

Se tutto ciò non facesse rabbrividire, farebbe ridere. Se non comportasse guerre e pene si potrebbe stare tranquilli entro l’enclave senza il terrore di persecuzioni, colpevolizzazioni, di andare a finire male.

  • E i diritti delle minoranze? Chiese.
  • Ma quali minoranze, quelli sono ciarlatani. Uccideteli. Rispose.

Come le crune allineate delle asce di Ulisse, appena accade di coniugare alcuni frammenti dell’infinito e vederne la costellazione, scocchiamo il dardo, l’affermazione, la verità. E chi non sa cogliere dal proprio cielo interno nessun disegno, ha sempre la stella polare del luogo comune a cui fare appello.

Le crune ideologiche, quelle moralistiche e quelle religiose, nonché quelle dell’interesse personale dispongono dell’incantevole fascino al quale non manchiamo di sottometterci, che non manchiamo di difendere con qualunque mezzo, con qualunque potenza di fuoco, fino alla morte dei rei se necessario. Cioè di coloro giudicati colpevoli di aver allineato altre scuri per altre ideologie, religioni, moralismi, interessi personali. Nel mondo, che se non fosse tragico sarebbe ridicolo, quello in cui io non sono tu, la battaglia è permanente, vincere è un dovere, soccombere è latente.

Facci caso

“L’errore è assumere che la fisica sia la descrizione delle cose in terza persona. È il contrario: la prospettiva relazionale mostra che la fisica è sempre descrizione della realtà in prima persona, da una prospettiva”. (p, 178-179)

Quando anche la fisica quantistica, per il medesimo candeggio, cessa di essere costretta entro la cosmogonia dell’infinitamente piccolo, essa diviene disponibile a rappresentare le dinamiche aperte delle relazioni infra e intrapersonali. Quindi della realtà tutta, visto che questa non è che arbitraria, autoreferenziale e autopoietica narrazione generata da noi, dai nostri sentimenti e dalle nostre esigenze e costellazioni.

Tutto ciò, tende a sussistere, nonostante la legittima e ineludibile prospettiva egoica, in quanto, riconoscendo il processo di identificazione con essa, possiamo emanciparcene, prenderne le distanze e avviarci a vedere la verità di una narrazione non meccanicista del mondo.

Così accadendo, diviene accessibile anche l’interruzione della crociata razionalista contro il mondo quantico o magico, nel quale altri si identificano. Tale frattura dell’incantesimo culturale è, a sua volta, la premessa per avviare un cammino di conoscenza che nulla ha a che fare con i saperi parcellizzati e superficialmente cognitivi, gabbie esiziali delle consapevolezze necessarie al cambio di paradigma esistenziale. Da quello conflittuale ed egologico a quello armonico ed ecologico.

“Ma le grandi speranze di noi minuscole creature mortali sono brevi sogni. La chiarezza concettuale della fisica classica è stata spazzata via dai quanti. La realtà non è come la descrive la fisica classica”. (p, 82)

A patto di unire i punti giusti, sono diverse sovrapposizioni tra fisica quantistica, conoscenza e condizione umana.

L’intreccio (entanglement), allude alla permanenza del legame tra due entità prima unite e poi separate e allontanate. La simultanea reazione di entrambe – quindi il perdurare dello stato di unità originario – allo stimolo su una soltanto è disponibile a rappresentare quanto accade nei legami sentimentali-affettivi. Proprio come se il cosiddetto infinitamente piccolo (fisica) sottostesse a dinamiche corrispondenti a quelle del cosiddetto mondo sottile (magia). Gli oggetti, energia in forma di materia, sono legati tra loro, il vuoto creato dalla scienza, che li separerebbe, non esiste, è un’illazione.

“La sua matematica non descrive la realtà, non ci dice «cosa c’è». Oggetti lontani sembrano connessi tra loro magicamente”. (p13)

Se da quanto appena detto, lo spazio perde i suoi connotati meccanicistici che ne fanno un’estensione entro la quale trovano posto gli elementi del reale, necessariamente li perde anche il tempo, visto che nel dualismo, uno è interfaccia e misura dell’altro.

Ciò non avviene solo entro il piccolo mondo subatomico. Pari disegno si mostra anche in quello macroscopico della realtà a misura d’uomo. Accade nell’emozione, ancora lei.

A mezzo di essa possiamo rivivere una condizione esistenziale del cosiddetto passato, come se il tempo di adesso fosse tornato al presente di allora, annullando nella sua durata anche lo spazio in cui ci troviamo.

Sebbene tutti abbiamo esperienza della brevissima vita di questi stravolgimenti spazio-temporali, possiamo considerare l’eventualità di una loro più lunga o permanente presenza in noi. È esattamente quanto accade in occasione delle nuove consapevolezze, nient’altro che immersioni in nuove emozioni, in cui ci troviamo a condividere le verità altrui, prima rifiutate. Un nuovo stato in cui, si realizza uno spazio in cui vedere l’altro come un noi e il tempo esteso al solo presente, ovvero l’arbitrarietà meccanicista della creazione del passato e del futuro, del tempo lineare e della sua irreversibilità.

A mezzo dell’immaginifica linearità della nostra biografia e della storiografia possiamo seguitare per una vita a dire io e storia, pensando di riferire entità oggettive come neppure un posacenere può essere.

L’io, la storia, e la realtà che raccontiamo non sono che verità strumentali alla loro esistenza, quindi effimere o impermanenti. Null’altro che una rappresentazione bidimensionale e temporale dell’infinito, che componiamo e siamo, utile alla gestione amministrativa della vita. Vera solo non in quella piccola prospettiva scambiata per tutto ciò che esiste e che declamiamo come se il mondo fosse perennemente così come lo stiamo vedendo. Come una fotografia, che pur non potendo riferire l’insieme della realtà fotografata, è di fatto, tanto da chi la scatta, quanto da chi la vede, concepita con quel potere. Uno slittamento di piani che fa perdere di vista la realtà dell’immagine, cioè che comporta la sovrapposizione di questa alla realtà più ampia della quale ha ripreso un frammento, un disegno, una costellazione. L’accredito che diamo a qualcosa, ha il potere magico di indurre in noi cambiamenti e nuove realtà.

Quindi, si può osservare come la realtà, per esistere, faccia a meno dei principi della logica classica. I principi d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso, oltre che l’intreccio, li oltrepassa anche nella duplice disponibilità energetica ad essere particella o onda, prima di decantare in una delle due espressioni in funzione dell’osservatore (magia) o del tipo di strumento di misurazione (fisica). E anche la considerazione che un’affermazione è sempre vera se ne individuiamo e condividiamo la narrazione dalla quale scaturisce. Onde per cui, il terzo escluso non è che la fotografia scambiata per il tutto.

Nonostante i paradossi della logica, spontanee confessioni della sua inettitudine alla conoscenza che non sia tecnico-amministrativa, che non sia senza peccato se non nei campi chiusi, regolamentati e condivisi nelle regole, nel linguaggio e nel gergo specifico, i suoi boriosi cultori non se curano e tirano dritto ad applicarla e farsene vanto in tutti i contesti umani.

È anche per questo che l’intelligenza piatta della logica non può intendere la portata della filosofia evincibile dal comportamento del mondo subatomico, né di quella della magia, della reversibilità del tempo, dell’ubiquità, dell’essere io e l’altro.

La posizione e/o la velocità della particella riscontrata dallo strumento dell’osservatore non sono altro che la nostra descrizione del mondo: altre osservazioni la riscontrano in altro punto e con altra quantità di moto. Come davanti a un disegno di Escher o al nastro di Möbius, non si sa dove ognuno posi gli occhi e quale realtà possa descrivere di ciò che vede.

La figurazione umanistica di questa assurdità – direbbero Einstein e tanti altri – si evince dal nostro mutare in funzione dell’interlocutore. Un cangiare ad ampio spettro, visto che la matrice del caleidoscopio che siamo è alimentata, come già detto, da esigenze, emozioni, sentimenti, eccetera.

Dunque noi siamo sempre il solito io, nonostante questo possa rappresentare nel tempo ambo le parti di qualunque dualità. Un’unità quindi che pur rimanendo se stessa può essere A quanto, nel tempo, essere B nell’istante dell’interlocuzione. Anche in questo caso il principio di non contraddizione viene a perdere il suo dominio, in quanto l’io non avverte alcuna contraddizione, né interruzione di se stesso, se non appunto logica.

Sul piano di realtà che stiamo adottando per riconoscere le similitudini tra microscopico e macroscopico, si trova una terza circostanza.

Come per la particella subatomica non si può prevedere contemporaneamente, con approssimazione meccanicistica, la quantità di moto (velocità) e la sua posizione nello spazio, così di un interlocutore non possiamo anticipare la sua reazione al nostro cospetto. Quindi, urtando qualcuno, potremmo trovarci davanti alle sue scuse o al suo coltello. In sostanza, in relazioni aperte, sussiste sempre l’imprevedibilità assoluta. Nei confronti della quale si cerca maldestramente di adottare il rischioso criterio del calcolo delle probabilità per ipotizzare gli epiloghi degli eventi.

Possibile che qualcosa sia reale rispetto a te ma non rispetto a me?

Dove si parla finalmente di relazioni”. (p,79)

Si può dire che il punto centrale, tanto della fisica quantistica, quanto di quello umanistico, sia la relazione. Chi riscontra la costellazione che sostiene questa affermazione si trova costretto a rivedere i pilastri sui quali aveva eretto le proprie convinzioni. L’incastellatura generata dalla narrazione della meccanica classica della realtà oggettiva, della conoscenza analitica, della scomponibilità dell’intero come criterio di conoscenza, e del principio di causa-effetto, ha ragione di essere spodestata dal suo dominio culturale.

“Una realtà più sottile di quella del materialismo semplicistico delle particelle nello spazio. Una realtà fatta di relazioni, prima che di oggetti”. (p, 13)

In tutte le relazioni insorge una mente (Bateson)(4) che governa le descrizioni del reale che ne seguono. La realtà quindi non può che essere altro da esse come se, istante per istante, inconsapevolmente fermassimo lo stocastico vorticare di tutto, un attimo prima dell’evento heideggeriano, cioè di vederlo apparire alla coscienza statico e descrivibile.

Come già detto, non possiamo fuggire a questa trappola ma possiamo riconoscerla e vedere come ci cattura, per poi interrompere il processo di identificazione con essa ed evolvere da uomini-ego a uomini-cristo.

La sedia siamo noi

“Se andiamo a cercare la sedia in sé, indipendentemente dalle sue relazioni con l’esterno, e in particolare con noi, non la troviamo”. (p, 147)

Mentre il bambino gioca ad arrampicarsi, il nonno pensa al rischio che corre, se l’affare è lo stesso, le due realtà sono differenti. Tanto la vita piena del piccolo, quanto quella timorata dell’adulto non sono che loro creature.

Gli istanti e l’eternità precedenti al momento della decantazione della realtà descrivibile, hanno carattere contiguo, quantico e magico, in quanto le forze emozionali-energetiche nel contesto (che però, nulla esclude, come il battito d’ali della farfalla monarca in Texas che fa scatenare la tempesta in Messico) fluttuano come nugoli di moscerini, stormi nuvolari di storni, branchi di sardine prendendo una certa forma nel momento in cui li osserviamo, base della nostra narrazione.

“La conclusione è radicale. Fa saltare l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci sforza a pensare tutto in termini di relazioni”. (p,143)

Note

Tutti i brani citati sono tratti da:

Carlo Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020.

  1. L’ordine del discorso, Einaudi.
  2. https://www.youtube.com/watch?v=wU-JcKB9hC4
  3. Contributi alla filosofia (Dall’evento), Adelphi.
  4. Verso un’ecologia della mente, Adelphi; Mente e natura – Un’unità necessaria Adelphi; Una sacra unità – Altri passi verso un’ecologia della mente Adelphi.

Di basnews

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