Macron è talmente ossessionato dall’ambizione di essere ricordato come uno statista che ogni tanto si comporta come tale. Come ha fatto in occasione della riforma delle pensioni, che qualunque politico italiano avrebbe abbandonato alla prima protesta di piazza (la Fornero ovviamente non conta, quello era un governo tecnico d’emergenza e come tale disinteressato al volere degli elettori). Il presidente francese ha tenuto duro di fronte alla Parigi imbrattata dalla spazzatura per lo sciopero dei netturbini, agli scontri dei manifestanti con la polizia e pure agli operai delle raffinerie che hanno incrociato le braccia minacciando di lasciare gli automobilisti francesi senza carburante.
Ieri il leader di En Marche! è invece comparso al telegiornale delle 13 mostrandosi tutt’altro che insicuro; ha rivendicato le ragioni della sua fermezza nel procedere con l’innalzamento dell’età pensionabile, ammettendo la frustrazione dei manifestanti ma spiegando che non ha intenzione di arretrare e dicendo parole molto chiare; ha parlato della riforma come di qualcosa che «non fa piacere a me come non fa piacere a voi, non è un lusso, e una necessità», e ha rivendicato che «Tra i sondaggi a breve termine e l’interesse generale del Paese, scelgo l’interesse generale del Paese». Il senso del suo discorso era piuttosto semplice; più tardi si innalza l’età pensionabile, più alto dovrà essere in futuro l’innalzamento e più il suo peso ricadrà sulle nuove generazioni.
A questo proposito va poi detto che l’aumento non è affatto drammatico come quello affrontato dagli italiani al tempo dell’esecutivo Monti: l’età minima per andare in pensione salirà di tre mesi ogni anno nel corso dei prossimi sette anni. Quindi nessun lavoratore oggi a un passo dalla pensione si vedrà ritardare il meritato riposo di due anni, ma di appena 90 giorni.
Sapendo che questo non sarebbe bastato da vero animale politico Macron è riuscito a piazzare pure una zampata populista, prendendosela con le grandi aziende che in questi mesi hanno ottenuto guadagni straordinari, reinvestiti per ricomprare le loro stesse azioni in borsa. Le imprese dovrebbero piuttosto, ha detto Macron, riservare una parte consistente di questo «contributo eccezionale in modo che i lavoratori possano approfittare di questo denaro», traducendoli in bonus.
Certo, il suo sereno autocontrollo e la profonda convinzione di essere nel giusto lo fanno un po’ assomigliare al Matteo Renzi premier, che non ha fatto esattamente una bella fine. Ma il presidente francese non può essere mandato a casa prima della fine del mandato, quindi le critiche rabbiose che gli arrivano dall’opposizione non lo scalfiscono più di tanto, soprattutto ora che si sono dimostrate incapaci di mettere in minoranza il governo guidato dalla premier Elisabeth Borne, la quale forse, contro ogni previsione, riuscirà a mantenere il suo posto.
D’altra parte Macron ha già affrontato rivolte violente durante il primo mandato: il popolo dei gilet gialli prometteva di spazzarlo via, e invece il presidente lo scorso anno ha riottenuto la fiducia della maggioranza silenziosa, che lo ha sostenuto nell’unico posto che conta, le urne.
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