Hanno un disperato bisogno che le notizie non si diffondano e non siamo come isole in mezzo alla corrente di vacua idiozia prodotta dalla “voce del padrone”: più tutta l’impalcatura diventa pericolante, più hanno bisogno di censura. E in Paesi dove lo stato di diritto è diventato poco meno che una farsa non è difficile esercitarla, basta la cattiva coscienza di magistrati inquirenti legati allo Stato e funzionari senza troppi scrupoli. Così Pavel Durov (vedi nota), fondatore e amministratore delegato dell’app di messaggistica crittografata Telegram, è stato arrestato sabato sera all’aeroporto Le Bourget di Parigi sotto il peso di accuse sostanzialmente inconsistenti, ma che rivelano appieno il sistema di pre tirannia nel quale viviamo: la mancanza di censura nei modi prescritti dagli organi di polizia e il fatto che questo sistema di messaggistica (come tutti gli altri del resto) sia criptato potrebbe consentire ogni tipo di crimine. Compresa la pedofilia. Ma questo è ovviamente generico: il fatto di colpire il proprietario di una piattaforma per i possibili reati commessi dagli utenti che egli peraltro non può conoscere, visto il criptaggio, è una palese violazione delle basi stesse della giurisprudenza e delle leggi fondamentali dello Stato di diritto. Significa solo che queste piattaforme non devono più esistere.
Tutto rimane molto vago affinché non sfugga il nodo centrale, ovvero che allo Stato francese divenuto peraltro criminale con i suoi trasferimenti di armi ad Ucraina e Israele, dei crimini non interessa proprio nulla, ma è interessato al fatto che le persone non abbiano una piattaforma sulla quale discutere e decostruire le parole d’ordine del potere. Siccome il capo di Telegram si è rifiutato di censurare i contenuti ecco che sono arrivate le manette. Inoltre Durov è sia cittadino russo che francese e dunque deve sopportare la vendetta dell’isterico Macron per le figuracce fatte in Ucraina. L’arresto all’aeroporto non è stato un attacco isolato, ma solo l’epilogo di un piano già predisposto: è il culmine di una campagna contro Telegram orchestrata da diverse settimane. La piattaforma è stata infatti oggetto di crescenti attacchi da parte di vari governi e regolatori grazie alla grottesca tesi secondo cui le politiche sulla libertà di parola incoraggiano attività illegali. Soprattutto quella di criticare il potere, a quanto sembra di capire.
Lo stesso Durov in una recente intervista aveva rivelato che l’Fbi ha tentato invano di corromperlo per poter accedere ai contenuti di Telegram, tramite una “porta di servizio”, altrimenti detta backdoor, richiesta che a quanto sappiamo è stata fatta (e probabilmente esaudita) anche ad altri sistemi di messaggistica, Ma quella di Telegram è una criptografia di alto livello, per nulla facile da penetrare per gli spioni della tecnocrazia occidentale e superiore a quella di altri concorrenti peraltro assai più disponibili ad aprire le porte agli occhi del potere, oltre ad offrire un sistema di traduzione più avanzato di quello di Google. Dunque rappresenta anche una sfida per quelli che una volta passavano per i padroni delle tecnologie e che ne pretendono il monopolio, nonostante stiano visibilmente perdendo terreno. Il fatto poi che il fondatore di Telegram sia anche cittadino russo offre il destro per colpirne uno ed educarne cento: se Durov venisse perseguito per le azioni degli utenti sulla sua piattaforma, ciò comporterà una maggiore pressione su altre società informatiche affinché controllino il comportamento degli utenti, mettendo a repentaglio l’impegno a proteggere la privacy degli utenti, anche ammesso che tale impegno sia sincero.
Di certo i governi occidentali si avviano ad utilizzare questa vicenda come precedente per richiedere un maggiore accesso alle comunicazioni crittografate, sostenendo che è necessario per la sicurezza nazionale e l’applicazione della legge. Ciò potrebbe portare a cambiamenti giuridici e normativi più ampi che minerebbero completamente la tutela della privacy e della libertà di espressione negli spazi digitali dove ne rimane ancora una traccia. Ed è ciò che tutto il sistema oligarchico Ue richiede per salvare se stesso dalla prossima resa dei conti.
Nota Durov, detto Lo Zuckerberg russo, è particolarmente legato all’Italia: nato a San Pietroburgo si è trasferito in giovane età a Torino, a causa del lavoro del padre (latinista e professore universitario di filologia classica). Qui è rimasto per quasi tutta la sua gioventù: ha infatti frequentato le scuole dell’obbligo in Italia prima di rientrare, nel 2001, in Russia.
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