Ryan McMaken, in un articolo pubblicato sul sito del Mises Institute, commenta in modo interessante il dietrofront dei trenta democratici Usa che, in una lettera aperta, avevano chiesto a Biden di affiancare il sostegno all’Ucraina con un impegno serio nella diplomazia, del quale abbiamo trattato in precedenza.
Sono bastate ventiquattro ore al partito della guerra per piegare la sparuta pattuglia di dissidenti, che “hanno finito per scusarsi in modo imbarazzante per aver suggerito che la diplomazia è una buona cosa“.
Secondo McMaken la loro posizione è suonata come “eretica” agli occhi di Washington, essendo gli Stati Unti ormai caduti “completamente sotto il dominio della coalizione militarista di centrosinistra che attualmente domina il partito democratico e dell’ala neoconservatrice in via di estinzione del partito repubblicano”.
Della “resa incondizionata”
Tale ambito guerrafondaio accusa quanti dissentono dalla linea ufficiale di “voler abbandonare il ‘sacro’ territorio dell’Ucraina, e gli intimano che non hanno il ‘diritto’ di farlo”. E però, secondo McMaken, “il regime ucraino perde il diritto di decidere unilateralmente quali concessioni devono essere fatte [alla Russia] dal momento che Kiev continua a chiedere ai contribuenti americani di consegnare loro denaro contante”.
“Inoltre, coinvolgendo gli Stati Uniti nel conflitto come fornitori di armi, di addestramento e come soggetto di una potenziale ritorsione nucleare, Kiev chiede anche che i cittadini americani siano posti sulla linea di fuoco di uno scontro nucleare o convenzionale nel caso in cui il conflitto dovesse intensificarsi”.
“Finché gli Stati Uniti sono visti come una parte in conflitto — come sta accadendo — gli americani sono in pericolo. Quindi sì, gli americani hanno tutto il diritto di chiedere una rapida fine del conflitto e, se necessario— come ha suggerito Henry Kissinger— anche attraverso un negoziato che includa la cessione di una parte del territorio ucraino. Se a Kiev non piacciono questi termini, può iniziare a rifiutare i soldi e le armi forniti dai contribuenti americani”.
Una considerazione che vale anche per altri Stati, Europa compresa, che stanno facendo confluire verso Kiev un fiume di soldi. Il punto, spiega McMaken, è che in questa guerra pesa una vera e propria “ossessione americana” per la “resa incondizionata”, un portato della Seconda guerra mondiale, quando Roosevelt approcciò il conflitto con Giappone e Germania proprio con tale predisposizione.
Tale prospettiva si basa “sull’idea che una vittoria militare è tale solo quando il vincitore detta totalmente i termini della resa”. Il modo di procedere in base a questa prospettiva è quello di “continuare a bombardare il paese nemico fino a quando il suo regime non conceda al vincitore tutto ciò che vuole”.
Del compromesso
Però, scrive McMaken, “pochissime guerre sono terminate sulla falsariga di qualcosa che si può definire come ‘resa incondizionata’. Ciò è noto da molto tempo ed è stato esposto in dettaglio da Coleman Phillipson nel suo libro Termination of War and Treaties of Peace” (1916).
“Phillipson osserva che nei casi in cui si è verificata la totale ‘sottomissione’ di un altro stato, non c’era motivo per concludere un accordo negoziato, perché l’imposizione della volontà del conquistatore alla nazione conquistata implica semplicemente un accordo unilaterale’. Il modo normale, molto più comune, di portare la pace nei conflitti internazionali, invece, è un ‘compromesso ad hoc, che implica un accordo sulle richieste di entrambe le parti e la risoluzione di tutte le questioni controverse”.
“La posizione corretta, in questo momento — conclude McMaken — specialmente in un conflitto in cui incombono le armi nucleari, non è quella di propagandare una crociata morale globale, ma di esplorare i modi per porre fine alle ostilità. E ciò avviene attraverso accordi negoziati e compromessi. I falchi, che dicono di ‘vergognarsi’ ai fautori della pace, sono in realtà solo propugnatori di un incremento dei conflitti, di un maggiore spargimento di sangue nonché propalatori di un fervore religioso fondato sull’integrità territoriale e altri miti nazionalisti“.
“[…] Le élite che controllano la politica estera beneficiano politicamente e finanziariamente, fino alla nausea, del moltiplicarsi delle guerre in corso. Per tale élite non c’è nessun aspetto negativo nella superfetazione delle guerre. Il fatto che abbiano respinto l’appello in favore dei negoziati da parte di alcuni progressisti, peraltro di portata ridotta, dimostra che il partito della guerra è ben lungi dall’abbandonare il suo feticcio della ‘resa incondizionata‘”.
Della malattia dell’Impero
Il punto è che l’Impero d’Occidente è ammalato: un morbo oscuro lo ha infettato in questi anni di guerre infinite. L’esportazione della democrazia a suon di bombe non è stato solo un mero esercizio di geometrica potenza inteso come necessario per preservare la primazia globale, ma ha cambiato radicalmente anche l’eccezionalismo americano che legittimava e fondava la politica estera della superpotenza.
Già pericoloso per parte sua, l’eccezionalismo americano, che già in sé è uno strano connubio di religione – l’America come potenza necessaria e provvidenziale – e nazionalismo, si è radicalizzato e militarizzato, dando vita a quel fondamentalismo religioso descritto nell’articolo di McMaken.
L’Impero è ormai preda di tale fondamentalismo, con tutte le derive mostruose del caso, d’altronde il sonno della ragione produce mostri.
Così l’idea di una lotta esistenziale tra bene e male, tra libertà/democrazia e autoritarismo, sebbene buona per la propaganda, non ha alcun significato reale.
E se la libertà e la democrazia ancora sopravvivono, e forse ancora per poco, nell’Impero preda di tale fondamentalismo religioso, non è certo per le élite che lo governano, ma per i residui ambiti ancora non consegnati a certe derive.
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