di lorenzo merlo
Parola d’ordine: divertirsi.
Per il risultato vai alla voce: guarda come va il mondo, “potrai vincere fantastici premi”, disse la radio. “Meraviglioso! Spettacolo! Top!, concluse il dj.
Rumore perpetuo, l’esatto opposto del necessario al raccoglimento che permette uno scandaglio nel torbido della mondanità e che porta alla saggezza. Sorveglianza permanente – l’esatto opposto della messinscena della praivasi – da parte di uno stato che dovrebbe essere dei cittadini e che invece appartiene alle istituzioni. Se stanno lavorando per noi è solo perché la merce siamo noi.
Rumore permanente di pubblicità, di notiziari, di jingle, di tv e radio, di dibattiti, quiz, gossip e canzonacce, di messaggi telefonici e sorveglianza di telecamere, di Ip, di algoritmi per ogni click.
Rumore come dipendenza e sorveglianza come sicurezza sono frese contro le quali non c’è difesa. Chi non saprà ciò che ha detto il web, chi non avrà il telefono, sarà perseguito a norma di legge. Sarà un criminale e per questo condannato. La democrazia lo impone, ce lo aveva già detto il presidente farfugliatore canuto e ingobbito – uno della moltitudine no-vergogna – a reti unificate, vaccinarsi è un dovere morale e civile.
E se si pensa che ritirarsi a una vita appartata in centri dal carattere monastico possa essere un’idea per difendersi e sottrarsi al controllo mimetizzato nella normalità e al vomito mondano, sia quello elitario che quello popolare, bisogna tenere presente che la disciplinata filosofia di fondo presente nelle piccole comunità, man mano che queste si ampliano, si annacqua fino a liquefarsi disperdendosi senza più valore nel grande mare della mota uniformante.
Non si tratta di chiaroveggenza esclusiva, chiunque può unire i puntini sparsi nella realtà e, così facendo, comporre la parabola che porta all’evidenza di cosa voglia dire inneggiare al progresso, alla tecnologia, al digitale e alla sua computante – niente di più, si badi – intelligenza.
È invece l’applicazione all’ipotesi monastica di salvezza di quanto abbiamo tutti osservato accadere alle comunità e società del tempo analogico, della comunicazione non pervasiva, della sorveglianza circoscritta alle case circondariali.
I cambiamenti repentini ai quali siamo obbligati – peraltro da entità e potentati sostanzialmente privati, ontologicamente fuori dall’ellisse della democrazia – a causa della digitalizzazione del sistema sociale hanno un passo assolutamente estraneo alla misura umana. Anche per coloro che al momento stanno cavalcando l’onda e più o meno deridono i vecchi, a questo punto detti anche esuberi, più precisamente scarti. Ovvero, anche per gli inconsapevoli o entusiasti dell’azione della tecnologia come valore, del virtuale come normalità, del digitale come servizio, verrà il momento di prendere coscienza di aver compiuto scelte di vita di tipo cloud, appoggiate su niente.
La bellezza, il potere e il sangue presenti nella dimensione tutta umanistica dello stato analogico, sono andati perduti, anzi, gettati via come retrogradi, nel solo silenzio possibile: quello degli intellettuali e soprattutto della classe prezzolata dei giornalisti, salvo eccezioni.
La semiotica di quel gesto, che getta l’eredità di sempre a favore del nuovo bon-bon tecno-digitale, si traduce nella piangente considerazione che niente è più a misura d’uomo, a partire dai programmi scolastici per arrivare su, alle leggi ideologiche.
È una fresatura che passa su tutti i contesti e li equalizza. Il rumore frenetico, molteplice, senza melodia, senza lirica e denso di corsa, di rabbia e lamento inascoltato vibra fino nel nostro profondo. Tanto che anche entusiasmi e infatuazioni si contraggono e cronicizzano in espressioni di tipo infantile, come quando tutto è nuovo e una scoperta, ma la velocità e la frammentazione sono così elevate da impedire la crescita e imporre dipendenza e alienazione. Filmati amatoriali di durata via via decrescente. Il messaggio non ha bisogno di tempo, spiegazioni e comprensioni. Per passare dal banconista a noi, correndo impercettibile su ponti emozionali, richiede subliminali istanti.
Per non restare soli, come senza sigarette o bicchiere, ripeteremo il ciclo ossessivo di consultazioni di telefono e portatile, di ascolto di musiche ed esperti, scambi di messaggi e di autoscatti. Alla fine della giornata, della vita e dell’epoca, riempiti soltanto dall’effimero, che come un bianco assomma le miriadi di colori che abbiamo inseguito, non ci resta che la noia che ormai, come un carapace, non indossiamo per volontà, ma ci costituisce. Una nebbia grigia che non annuncia schiarite bensì addensamenti la cui natura è il nero.
Il digitale esponenzializza l’economia finanziaria e tende al vuoto comune, cuginastro nefasto del bene comune. Se questo implicava il senso di un’identità e di una direzione di vita, base di solidità psicologica, quello ne ossida i tondini fino alla demolizione programmata, offrendo perciò in cambio instabilità, paura, incertezza, mancanza di scopo e di energia, in una parola, nichilismo.
Ma non è ancora finita, l’orbita digitale attraversa regioni della cosmogonia umana mai sospettati. La solitudine ora impedisce di cercare in sé stessi, nel proprio divanismo edonista, le cause della propria condizione sofferente. Più di prima si rivolge all’esterno cercando di esorcizzarsi alzando il livello della presenza fino alla coincidenza tra apparire ed esistere, tra esserci e autostima, tra presenza e ragione di vita.
Il repentino cangiare dell’appartenenza e dell’apparire trascina con sé l’identità che da plinto piantato e cassaforte di riferimenti guida, diviene moscone volubile e imprevedibile che, scambiando libertà con liberismo ammette d’essere ogni identità in qualunque momento, secondo qualsivoglia capriccio individualista.
La persistenza in noi della realtà virtuale – oltre a divertire e a rappresentare un futuro migliore del passato come nel pensiero della maggioranza, giovane in particolare – in quanto tale, non ci appartiene, quindi, come è già avvenuto, può sparire da sotto i piedi con tempi e modalità da uccidere un eroe.
Le dipendenze proprie della virtualizzazione della realtà, dell’identità, della comunità hanno un potere superiore a quelle biologiche riducibili, male che vada, con l’atroce terapia del cold turkey, così Burroughs nel suo Pasto nudo (1), ha chiamato la disintossicazione coatta dall’eroina.
La dipendenza dalla tecnologia vestita con abiti social urla la mortificazione di una vita, di una creatività, di un amore, di una bellezza, primo destino umano emancipato dalle ideologie strutturate e occasionali.
“Dal momento che la società con la sua complessa organizzazione esercita un potere senza precedenti sull’Uomo, la dipendenza dell’Uomo da essa è giunta a tal punto che egli ha quasi cessato dall’avere un’esistenza intellettuale autonoma […]. Con un atto di volontà collettivo, la libertà di pensiero è stata messa fuori gioco, perché molti rinunciano a pensare come liberi individui, per lasciarsi guidare dal collettivo al quale appartengono […]. la nostra vita intellettuale ed emozionale è scardinata. L’iperorganizzazione delle nostre attività pubbliche culmina nell’organizzazione dell’irresponsabilità”. (2)
E le ripercussioni fisiche non mancheranno di tatuare di sofferenza le biografie che ne saranno preda.
In un mondo di situazioni (Guy Debord) forniteci gratuitamente in continuazione dai dispositivi tradizionali e recenti, tanto in contesto privato che pubblico, ora più che mai, si potrebbe dire definitivamente – almeno prima delle nanoparticelle sottopelle ed endovena – che passiamo da una situazione alla successiva, con crescente facilità, disinvoltura, esigenza, inconsapevolezza, ridancianità, malata frugalità ossessiva-compulsiva. Telecomandi e mouse, che hanno sostituito cucchiaino e accendino, ci somministrano dosi a go-go, con le quali crediamo soltanto di intrattenerci, di divertirci, di informarci, di conoscere. Ma che di fatto ci impigliano, vittime di una rete da 80 consultazioni all’ora del telefono.
Come il giullare, che nella sua maglia circense acchiappava il re e la sua corte, per mostrare loro i mali di cui erano stati capaci e i difetti a loro stessi ignoti, anche la satira, che denuncia, ridicolizza (si può dire o la parola è diventata istigazione al bullismo?) e sbeffeggia (si può dire o la parola è diventata istigazione alla violenza?), ha come suo primo e subliminale effetto quello di essere una specie di digestivo zuccherato, capace di esorcizzare il peggior veleno politico e di cauterizzare di risate le peggiori indignazioni. Come spiegare diversamente il successo dei giullari di adesso, soverchiati di consensi e di applausi, lenitivi medicamenti alla propria pusillanime ignavia e candeggina mnemonica, attraverso cui potersi credere assolti (De André)?
Così come Hollywood, che prima si limitava a vendere latte, elettrodomestici, sigarette, alcolici, modelli e stili, che aveva fatto degli americani il popolo giusto, e dei nativi quello selvaggio e brutale, ora può permettersi di criticare se stessa, gli Stati Uniti, di denunciare le politiche belliche e le torture come metodo ordinario d’indagine.
A vederne il ventaglio di titoli, sembra giusto e democratico, perfino dalla parte dei reietti. Ma non è così. Più degli altri, ovvero di tutti noi che non abbiamo tempo di riflettere e osservare, che non riusciamo a evitare di farci distrarre dalle dosi assuefacenti di zapping, ha piena consapevolezza che la masnada fluida di stimoli che emette con i suoi film, oltre a non permettere soste a chi sta sotto la cascata, lascia invece che ogni goccia faccia spessore stalagmitico in noi, entusiasti e plaudenti, nella pentola insieme alla rana.
Se prima avevamo a che fare con un’opulenza analogica, quindi finita, limitata allo spazio fisico prima o poi riempito di oggetti senza più valore, neppure affettivo, ora, in campo digitale, il limite se c’è non è più a misura d’uomo, quindi da questo è concepibile come infinito. Una dimensione di per sé umanamente inaccessibile, dai tratti della malattia grave che in sé ha il potere di creare nichilismo, a sua volta un tipo di morte per disorientamento, immobilità e inerzia. Una lunga, sottile decadenza dell’energia vitale. Un’agonia indistinguibile a causa degli ultimi colpi di coda per l’ultimo video “virale”. Pasticche elargite a gratis dai padroni della comunicazione, pagati con apparenti innocui click, a mezzo dei quali crediamo di essere ancora vivi, mentre la fresa, silenziosa, continua a girare.
Fanno corpo in questo sistema i giornali, per lo più giornalacci, più scandalosi di quanto non fossero stati quelli cosiddetti pornografici comprati di nascosto. Giornali che si preoccupano del video e senza remora lo affiancano alla borsa di Gucci, alle cosce della modella, al drink che fa festa. Senza poi mostrare alcunché di sconvolgente o alcunché del tutto, se non la pietosa brama di un click in più. Giornali che si vantano di proteggere l’infanzia cancellando gli occhi dei minori, per poi sbatterci in faccia qualunque deformazione in nome di qualche ideologia progressista e quindi corretta, come se non potessero essere scioccanti corpi contundenti scagliati contro la sensibilità di molti. Giornali che dopo aver cercato di arginare l’informazione d’altra origine, bollando come bufala il resto del mondo e come esclusivamente autentiche le loro pagine, ora pubblicano e ottengono le visite indispensabili alla loro sopravvivenza da video creati da beoni privati.
Così, invece che piangere, ingurgitiamo informazioni e immagini di ogni tipo, come in un all you can eat inderogabile, per credere di essere semplicemente aggiornati o, peggio, intelligenti.
Democrazia dell’assuefazione, dunque, non è una risultante voluta dal caso, ma l’esito di un progetto, voluto dall’oligarchia della comunicazione. Il controllo tradizionale a sfondo fisico coercitivo non poteva più sortire buoni esiti. La moltiplicazione delle persone, l’insufficienza delle strutture, la diffusa consapevolezza dei diritti fondamentali, l’impagliatura dell’ideologia democratica, non permettevano più quei modi rozzi, ormai archeologici, peraltro ancora validi in piccoli e micro contesti, vedi Abu Ghraib e Guantánamo in cima a una lista infinita. Serviva un’azione vestita di comprensione e accondiscendenza, se non di compassione. Ed eccoci al bailamme di distrazioni che – come un camion a presunto impatto zero, che scarica plastica fintamente riciclabile – ci ricoprono e ci fresano secondo un intarsio di cui non siamo gli autori.
Note
1. William Burroughs, Il pasto nudo, Milano, Sugarco, 1976, p. 22.
2. Erich Fromm, Avere o essere?, p. 209, da Giancarlo Arnao, Droga e potere, Roma, Savelli, 1979, p. 87.