Recentemente la ricerca annuale del Censis ha messo in luce l’ignoranza generalizzata degli italiani al solo scopo di spiegare e demonizzare il fatto che molti di loro non credano alle parole d’ordine del globalismo, non apprezzino, per esempio, l’immigrazione indiscriminata o non accettino la precarietà del lavoro. Lasciamo perdere le considerazioni di una Fondazione che non si sa da dove prenda i soldi e nella quale il presidente ha pensato bene di nominare il figlio direttore generale e lasciamo stare anche le statistiche dell’Ocse che fanno parte del grande Barnum della statistica occidentale. In realtà dovremmo chiederci proprio il contrario, come mai tanta gente crede invece alle favole che vengono orchestrate dal mainstream e che spesso sono palesemente frutto di interpretazioni ipocrite o di mere bugie. E questo accade con maggiore frequenza proprio nelle classi medio borghesi cui si attribuisce una maggiore cultura.
Ma ecco un dato sconcertante: mentre i laureati “brevi” e quelli normali, per così dire, sono circa il 21 per cento delle persone tra i 25 e i 64 anni, i cosiddetti “forti lettori” ossia quelli che leggono (o quantomeno acquistano) almeno 12 libri l’anno sono il 15,6 per cento della popolazione di lettori ovvero parte di quel 40 per cento di italiani che legge almeno un libro l’anno. Sono in sostanza solo il 7 per cento scarso delle persone sopra i sei anni di età. In realtà si tratta di dati ingannevoli perché la gran parte di tali libri sono testi di cucina, romanzetti rosa, gialli di basso rango, guide turistiche, libri scolastici, manualistica varia e via dicendo. Non c’è ovviamente nulla di male in questo e io stesso leggo gialli, fantascienza e credo di avere due o tre edizioni dell’Artusi, ma il dato generale dice una cosa: che c’è un netto distacco tra istruzione funzionale e cultura. Che la maggior parte dei laureati non legge nulla una volta acquisito il titolo.
Ma questo non sorprende. La scuola secondaria è ormai afflitta dalla burocratizzazione di ogni aspetto dell’attività didattica, dall’invasione di format e test standardizzati propinati dall’Invalsi, all’irruzione di inafferrabili competenze che hanno finito per sostituire i concreti contenuti delle varie discipline. E il tutto orientato non alla formazione di cittadini dotati di pensiero critico, ma di rotelle del sistema economico. Insomma una scuola da cui è progressivamente scomparsa la cultura, sostituita da performance basate su test, addestramenti, capacità digitali e forme varie di socializzazione. La preparazione e la cultura degli insegnanti, qualora vi sia effettivamente, a nulla valgono di fronte alla “raccolta punti” a cui essi sono ormai costretti col seguire distrattamente e senza profitto master e corsi di aggiornamento on-line abborracciati da enti di formazione privati, che di tale attività hanno fatto un affare molto lucroso.
Questa involuzione non si è fermata alla scuola superiore, ma si è trasmessa anche nel mondo universitario, a partire dalla famosa riforma di Luigi Berlinguer del 3+2 e dall’introduzione dei cosiddetti “crediti”, intervenuti durante il primo Governo Prodi. Tutte cose disegnate su un modello anglosassone che è ormai in fortissima crisi. Ad ogni modo si è trattato dell’introduzione nel mondo della cultura di concetti e temi cari al dilagante pensiero neo liberista, di cui la sinistra si è fatta pienamente carico pensando che solo così poteva avvenire la modernizzazione della società italiana: aziendalizzazione del sapere (con i crediti formativi, l’abbinamento di scuola – lavoro, fatto da Renzi, la valutazione competitiva dei docenti), la dipendenza delle scelte curricolari dai bisogni dell’industria, l’equiparazione fra scuola statale e paritaria, entrambe qualificate come scuola pubblica e poste sullo stesso piano. Per non parlare poi dell’impulso dato alle università telematiche che distribuiscono lauree e crediti in modo assai più “liberale” delle università statali. Chi non ricorda le famose “tre i” di Berlusconi inglese, informatica, impresa? Tutto congiura affinché lo studente universitario si limiti a seguire il valzer degli esami e ad uscirne il più presto possibile. Essere colto diventa a questo punto un’opzione personale abbastanza eccentrica, una mania minoritaria.
Col tempo tutto questo ha creato una classe di “mezzi colti” che chiamerei invece di “alfabeti funzionali” in contrasto e allo stesso tempo per similitudine con l’analfabetismo funzionale, ma anche per usare un’espressione lontana da ideologismi di stampo cattolico o presenti nella cultura russa (vedi Dugin). Una classe che ha in mano il famoso “pezzo di carta” cui non corrisponde però né una relativa competenza, né adeguati strumenti di analisi, né un reale desiderio o curiosità di studiare e approfondire i temi a cui ci si trova di fronte. Non saprei dirlo meglio del filosofo Davide Miccione, autore di vari libri che navigano attorno e in mezzo a questo problema: “Nella sua autopercezione il “mezzo colto” pensa di doversi informare sul mondo tramite i media più che di esperirlo direttamente. Fatte queste debite premesse il “mezzo colto” si trova nella condizione ideale per venire deformato mentalmente dal sistema di informazione. Diventa quello più esposto alle esagerazioni mediatiche. Ormai, dimenticate le appartenenze ideologiche, il mezzo colto ha bisogno di essere identitariamente rassicurato sulla sua appartenenza al gruppo dei buoni, sull’essere dalla parte giusta, sul fare parte dell’Italia migliore. Ciò avviene attraverso l’identificazione di una serie di “mali assoluti”: la cui stigmatizzazione lo alloca, in automatico, tra i buoni”. E anche il semplice e sano dubbio pare loro qualunquismo.
Così, paradossalmente, proprio questo insieme di alfabeti funzionali smarrisce una verosimile percezione della realtà molto più spesso delle persone con una istruzione formalmente inferiore, ma che radicano i loro giudizi in base all’esperienza concreta. Cresciuti dentro un paradigma dove l’emotività ha scacciato la ragione, navigano di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, alla sola luce della polarità buoni – cattivi, dove questi ultimi finiscono per essere quelli che il sistema mediatico indica loro. In tal modo 11 settembre, crisi dei subprime, pandemia, Ucraina, clima, omofobia, patriarcato, vengono accolti in maniera del tutto automatica e manichea, con un’assertività che denuncia il fastidio stesso di pensare. Con esiti alle volte sorprendenti, come la confusione tra internazionalismo e globalismo, tra uguaglianza e inclusione, per non parlare della scienza vista come un sistema dogmatico, il che fa venire in mente sostituzioni freudiane. Tutto ciò accade perché manca del tutto una visione del mondo (in questo i libri sarebbero preziosi) che fornisca una bussola: perciò gli alfabeti funzionali continuano a reiterare gli ipnotici salmi da giornale o da social. Fino a che la crisi dell’Europa e dell’Occidente in generale non sarà così profonda che li costringerà a riprendere contatto con la realtà.
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