Quando Joni Mitchell, accettando la proposta di Charles Mingus, mise da parte tutto ciò che fino a quel momento le aveva assicurato la celebrità e si misurò col jazz, molti colsero l’occasione per definirla un’ambiziosa incompetente.
In effetti la cantautrice, nata in Canada nel 1943 ed i cui esordi si erano apprezzati nel folk, aveva ottenuto successo presso il grande pubblico con un repertorio pop, che in sostanza aveva fatto di lei una versione femminile di personaggi leggendari quali Neil Young ed Eric Enderson.
Nessuno salutò con favore la scelta dell’artista di avvicinarsi alle sonorità del blues e del jazz, giudicandola un azzardo e non è escluso che a ciò abbia contribuito proprio il fatto che la Mitchell fosse una donna.
Il mondo dell’industria musicale peraltro all’epoca cercava per ragioni comprensibili di proporre repertori che già avevano riscosso successo, variandoli solo il necessario per evitare la produzione di copie pedisseque, uguali in tutto le une con le altre. Un cambiamento tanto radicale come quello intrapreso dalla cantautrice canadese, attirò dunque su di sé la critica e la condanna da parte di quell’industria e non solo. Di fatto un album esplicitamente jazz come “Mingus” uscito nel giugno del 79, fu il meno venduto tra quelli prodotti dell’artista, che così come non molto tempo prima aveva frequentato dei giovanissimi Bob Dylan e Leonard Cohen, si avvaleva ora delle collaborazioni del compianto Jaco Pastorius, o Wayne Shorter, di Peter Erskine e Herbie Hanckock.
Non sono tra quelli che oggi, a distanza di così tanto tempo, trova utile e giusto valutare come vergognosa la condanna subita dalla Mitchell, essendo fin troppo facile giudicare astrattamente qualcosa della quale non si è in alcun modo parte. Mi limiterò ad osservare, senza tema di essere considerata una noiosa conservatrice che, lasciando fuori il mondo della produzione musicale, interessato esclusivamente al proprio guadagno, un sospetto da parte tanto della critica quanto del pubblico verso il cambiamento repentino della musicista, può infondo ritenersi ragionevole. Nonostante ciò mi domando come sia stato possibile non cogliere che nella produzione antecedente all’album “Mingus” vi fossero delle connotazioni evidentemente jazz e che questo fosse presente nel tessuto stesso delle composizioni della Mitchell, non negli arrangiamenti o nelle “rifiniture” successive. Se così non fosse stato in nessun modo l’artista sarebbe stata in grado di dedicarsi al jazz con i risultati e nelle modalità con cui lo ha fatto, dimostrando un’urgenza compositiva personale autentica, che aveva necessità di esprimere ad onta delle richieste del pubblico, della critica e degli interessi dell’industria musicale del tempo.
Joni Mitchell non ha mai seguito infatti niente altro che il proprio talento, un talento che è doveroso definire raro. Il suo approccio all’arte rivela un’intelligenza complessa, fatta di molti colori, spesso antitetici, di suoni che dialogano tra di loro “raccontando” versioni differenti delle medesime “cose” e riflettendo una miriade di luci, in una ricchezza compositiva che non perde mai l’abbraccio armonico. Questo talento, questa intelligenza e versatilità così fuori dal comune, sono ancora oggi considerati connotati più tipici degli uomini e quando riconosciuti nelle donne si fa ancora fatica, con un po’ di malafede, ad incoraggiarli, lasciando che essi fatichino il doppio (se non il triplo o il quadruplo) ad affermarsi. La creatività femminile naviga spesso ancora in clichés che ne fanno una filastrocca noiosa da sentire, piatta e perciò svuotata di senso e di bellezza, quella bellezza di cui al contrario le composizioni di Joni Mitchell sono state sempre ricche.
Rosamaria Fumarola