Isteria occidentale per la visita di Xi Jinping a Mosca: si batte la campana a martello per un possibile accordo che porti al cessate il fuoco, e non solo in Ucraina. Già a proposito del ruolo di mediazione svolto da Pechino tra Iran e Arabia Saudita, la CNN aveva subito lanciato l’allarme sul pericolo di una fine del «dominio USA in Medio Oriente», tacendo accuratamente sul macello in Yemen.
Ancora la CNN sembra sconvolta perché «Molti nel bacino del Golfo Persico considerano lo sviluppo della guerra in Ucraina un’inutile e pericolosa avventura americana e arrivano a giudicare non infondate alcune pretese territoriali avanzate da Vladimir Putin all’Ucraina». Tutto ciò, a detta della CNN, porta a conseguenze “terribili”: i paesi della regione si sono spinti fino a «realizzare politiche conformi ai loro interessi nazionali, e non ai bisogni dell’America». Indipendentemente dal fatto che gli sforzi della Cina portino alla pace o meno, commenta RIA Novosti, l’Occidente è allarmato dal fatto stesso della mediazione di pace cinese: proprio perché pacifiche, le iniziative di Pechino vengono respinte senza appello.
È così anche per le proposte cinesi sull’Ucraina: Washington le respinge perché potrebbero portare al cessate il fuoco e, dunque, a detta della Casa Bianca , non a dei passi «in direzione di una pace giusta e stabile», perché, là sul Potomac, si considera una “pace giusta e stabile”, addirittura eterna, solo quella che veda hiroshimizzate Ucraina e Russia (all’inizio, solo esse) e gli Stati Uniti assisi sul trono mondiale.
E anche la sortita del tribunale penale internazionale, nota RIA Novosti, letteralmente a ridosso dell’annuncio della visita di Xi a Mosca, non è stata altro che il “naturale” tentativo occidentale di insinuare un cuneo tra Pechino e Mosca. In sostanza, anche le contumelie all’indirizzo del “pericolo di pace” costituito dai passi cinesi, si inseriscono nel preciso piano yankee di trascinare l’Europa in una guerra aperta con la Russia.
Una settimana fa, in un’intervista alla tedesca Bild am Sonntag, il Ministro degli esteri della junta golpista, Dmitrij Kuleba aveva definito “azioni coordinate” le accuse lanciate sui media (The New York Times, Die Zeit, Der Spiegel, ecc.) all’indirizzo di un imprecisato “gruppo filo-ucraino” per il sabotaggio ai gasdotti North Stream, perciò, Kiev intende discutere la faccenda col Segretario di stato Anthony Blinken e con la Ministra tedesca Annalena Baerbock. Per una volta, un ministro golpista sembra andare a canestro.
Improvvisamente, nota l’osservatore Sergej Kuznetsov, Kiev si mostra “turbata” che qualcuno possa sospettarla di esser dietro a un atto di diversione, quantunque, per anni non si sia mai preoccupata che la si potesse accusare di genocidio, per i bombardamenti su città e villaggi del Donbass, o addirittura si vantava dell’attentato al ponte di Crimea.
In ogni caso, è stato notato che le “scoperte” sul misterioso panfilo “Andromeda” che avrebbe trasportato almeno 1.500 kg di esplosivo attraverso Germania e Polonia, e quindi li avrebbe calati in mare, alla profondità di 80 metri, per minare i gasdotti, recano evidenti lacune logistiche. Insomma, un tale “gruppo filo-ucraino”, immaginato quasi come un circolo sub della domenica, oltre a essere stato addestrato in una sorta di ComSubIn ultrasegreto e ultraspecialistico, avrebbe dovuto disporre di equipaggiamenti difficilmente trasportati, anch’essi come l’esplosivo, su un panfilo da diporto. E, comunque, ogni dubbio è stato fugato dall’indagine rigorosa di Sejmour Hersh, sull’ordine impartito direttamente da Joe Biden e eseguito da reparti americani e norvegesi, per quanto al Consiglio di sicurezza nazionale USA si affannino a definire la versione di Hersh “completa menzogna e piena finzione”.
L’ha detto esplicitamente il vice Ministro degli esteri russo, Sergej Rjabkov: Mosca è sicura che la responsabilità per l’attentato ai gasdotti sia tutta americana e che le cosiddette “fughe di notizie” sul fantomatico “gruppo pro-ucraino” non siano altro che un goffo tentativo di sviare le indagini.
Di fronte alla pretesa di chiudere le indagini sul sabotaggio, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha dichiarato che «questo attacco oltremodo rozzo non rimarrà non indagato. Se un’indagine obiettiva, imparziale, trasparente verrà bloccata, noi penseremo ovviamente a come rispondere all’Occidente per questo attacco diretto: un aperto attentato a una nostra proprietà».
Ma una risposta russa adeguata potrebbe condurre a un nuovo e più ampio scontro, forse sullo stesso teatro europeo; e sarebbe proprio quello a cui punta Washington, che intanto ha ottenuto una parte di ciò che voleva: con l’imposizione delle sanzioni anti-russe, se non è riuscita a indebolire la Russia tanto quanto voluto (Mosca è anzi passata al contrattacco: per citare l’ultimo esempio, il tribunale arbitrale di Nižnij Novgorod, su querela presentata dalla russa GAZ per danni causati dalla risoluzione dell’accordo sull’assemblaggio, ha posto sotto sequestro tutti gli asset della Volkswagen in Russia) ha però ottenuto di debilitare a sufficienza i paesi europei. Solo che, alla lunga, tale risultato si sta trasformando in un boomerang, col tracollo di banche americane.
In concreto: Washington aveva ogni interesse a mettere fuori uso il North stream; da anni si muoveva ormai in quella direzione: se con il South stream era riuscita a bloccare il progetto, con il North stream (per qualche tempo, gli USA erano riusciti, con vari pretesti, a convincere i vari partner europei del gasdotto a ritardarne l’apertura) ormai attivo, si dovevano usare “le maniere forti”, per demolire i legami economici tra UE e Russia, spostare grandi e strategiche produzioni europee in USA e, con la guerra in Ucraina, legare il complesso militare-industriale europeo a quello americano. Ma, soprattutto, cercare di coinvolgere direttamente l’Europa in una guerra con la Russia, lasciando agli Stati Uniti il ruolo di trionfatori economici, che conservano la leadership mondiale.
Che l’obiettivo yankee sia quello di uno scontro in piena regola sul teatro europeo, lo farebbero intendere anche le recenti improvvide parole dell’ambasciatore polacco a Parigi, secondo cui la Polonia sarà costretta a entrare in guerra con la Russia, se l’Ucraina non reggerà (e l’Ucraina non regge), dopo le quali parole la medesima ambasciata si è vista costretta a farfugliare che l’ambasciatore era stato frainteso, che le sue parole erano state estrapolate dal contesto, e che egli intendeva dire che, dopo l’Ucraina, la Polonia sarebbe stata costretta a guerreggiare con la Russia se questa avesse attaccato la Polonia: e Varsavia è sicura che sarà così. Anche perché, ancora una volta, gli Stati Uniti hanno bisogno di una guerra: un anno fa, Washington aveva detto apertamente di aver bisogno di una guerra di logoramento con la Russia per interposta Ucraina. Ma ormai l’Ucraina è alla fine, e le massicce forniture di armi servono solo a ingrassare il complesso militare-industriale occidentale: per Washington, è ora di cercare un sostituto sul campo.
D’altronde, la Polonia stessa ha vecchi interessi sull’Ucraina: se non proprio il confine del 1939, a Varsavia fa gola quantomeno la Galizia, per riconquistare almeno un po’ dell’antica grandezza e, allo stesso tempo, mantenere un’area cuscinetto (l’Ucraina enormemente ridotta, dopo la spartizione tra quattro o cinque soggetti) tra sé e la Russia. Senza apparire come “invasore dell’Ucraina”, Varsavia attende la resa di Kiev, per presentarsi quale “salvatrice” di ciò che rimarrà del paese, e intanto triplica o quadruplica le proprie forze armate, in vista dello scontro con Mosca.
Gli Stati Uniti, alla maniera loro solita, possono ben preparare “l’incidente” necessario a far scattare il conflitto: un “golfo del Tonchino” via terra. E la NATO è lì, pronta a giocare il ruolo imposto da Washington. Non è una bella prospettiva.
Fabrizio Poggi
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