Sui social è tutto un tiro a Di Maio, da ieri l’ormai ex ministro degli Esteri è oggetto della satira più spietata.
Del resto è proprio lui il grande “trombato” di queste elezioni politiche. Lui che quattro anni fa era tornato in Parlamento da vero leader, a capo del primo partito italiano, che lui stesso aveva portato a superare il 30% guidandolo in una campagna elettorale dai toni marcatamente populisti. In quattro anni il patrimonio di consensi e la leadership conquistata si sono sciolti come neve al sole.
Colpa probabilmente delle ripetute giravolte cui “Gigino” ci ha abituati in questi anni. Ha iniziato la legislatura alleandosi con la Lega nel governo gialloverde, il Conte 1, stringendo un patto di ferro con il leader del Carroccio Matteo Salvini, al punto che sui murales venivano raffigurati in dolci effusioni. Poi è passato all’alleanza con il Pd nonostante avesse sempre descritto i dem come il “partito di Bibbiano”, del “malaffare”, facendo il giustizialista “duro e puro”, per poi scusarsi con gli amministratori indagati che aveva colpevolizzato ben prima che lo facesse la magistratura, riscoprendo la sua anima garantista. Ha finito con l’essere il più draghiano dei ministri di Draghi, lui che della lotta ai poteri forti e alle lobby tecnocratiche di Bruxelles aveva fatto la propria missione.
Anti europeista, con un passato da fautore del referendum per l’uscita dall’euro, sovranista modello Trump, pronto a farsi immortalare al fianco di Putin con tanto di post su Facebook “perché l’Italia – scriveva – tutela innanzitutto i propri interessi commerciali”, sostenitore degli scambi con la Cina, si è riscoperto con Draghi ultra europeista, ultra atlantista, nemico giurato della Russia, primo sponsor delle sanzioni a Mosca e dell’invio delle armi all’Ucraina, in totale discontinuità con il grillismo prima maniera anti americano, anti-Nato, amico dei cinesi, dei venezuelani e degli Stati canaglia nemici degli Usa.
E che dire dei gilet gialli che da leader populista era andato a sostenere personalmente a Parigi? Anche qui foto, strette di mano, abbracci con i leader della protesta, per poi in seguito elogiare Macron e chiedere addirittura l’adesione dei 5S al gruppo parlamentare europeo del presidente francese (peccato ci fosse già Renzi).
Non meno contraddittorio il rapporto con Conte, da lui presentato quattro anni fa come ministro della Funzione Pubblica nell’ipotetico governo Di Maio monocolore 5Stelle, poi proposto come premier nel governo con la Lega, imposto in quello col Pd, elogiato come il miglior presidente del Consiglio della storia italiana, l’uomo che ha salvato l’Italia sotto la pandemia, per poi in ultimo rinnegarlo per le sue posizioni critiche sulla guerra in Ucraina, per l’opposizione all’invio delle armi, per la troppa vicinanza alla Cina e la poca amicizia con gli Stati Uniti.
E infine, ciliegina sulla torta, la scissione da lui pilotata nel M5S per indebolire Conte rafforzando Draghi che invece, è assai legittimo il sospetto che possa essersi servito del suo ministro per andare alla rottura con i pentastellati, provocare la crisi di governo e uscire di scena il prima possibile. E difatti il governo è andato a casa, Mattarella ha sciolto le Camere e lui ha tentato di salvare la poltrona con il soccorso del Pd. Ma a forza di girare, la giostra si è fermata e Di Maio è uscito di scena. Perché non tutte le ciambelle riescono col buco, specie in politica e l’impressione che si ha è che anche lui sia rimasto vittima dell’usa e getta tipico della sinistra. E Luigino oggettivamente al Pd non serviva più, se non per fare concorrenza a Conte e togliere voti ai 5S in Campania. Ma ora che non è stato eletto sarà un ostacolo in meno per la ripresa del dialogo con i pentastellati, indispensabile ai dem per costruire in futuro un centrosinistra competitivo.
Di lui si parlerà come di una meteora, un leader mancato, uno che aveva in mano l’Italia e ha sprecato la sua grande occasione, che aveva saputo trasformare un Movimento di protesta in forza di governo, facendosi alla fine risucchiare dalle dinamiche di potere e finendo con il privilegiare lo spirito di auto-conservazione al cambiamento del sistema. Poteva fare la rivoluzione, invece il massimo che ha ottenuto è stato il taglio dei parlamentari, il cui unico risultato è stato quello di consegnare all’Italia un Parlamento di nominati, ancora più autoreferenziale dei precedenti. Poteva fare la storia, invece alla fine gli italiani gli hanno fatto la festa.
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