Ho terminato quest’oggi la lettura de “La sconfitta dell’Occidente” del francese Emmanuel Todd, un libro che – per la ricchezza dei contenuti e lo sconcerto provocato dalle conclusioni cui perviene, ben argomentando, l’autore – sarebbe un caso editoriale in qualsiasi democrazia degna di questo nome, e nell’Italia odierna viene invece presentato al pubblico quasi alla chetichella.

Il perché di questa reticenza mediatica è d’altronde comprensibilissimo: il saggio contraddice, dati alla mano, la narrazione mainstream che descrive l’Ucraina alla stregua di un’innocente vittima democratica dell’imperialismo russo e il supporto offerto dall’Occidente al regime di Zelensky come un’altruistica difesa dei diritti umani e del principio di autodeterminazione dei popoli. Peggio ancora: Todd ci presenta un impero americano in piena necrosi, nichilista, sopraffattore e irrazionalmente violento, mentre la Russia appare come un Paese “stabile” e guidato da uno statista responsabile, cinico al punto giusto e capace di elaborare una strategia a medio-lungo termine. Quella attualmente in corso sarebbe una lotta fra una “democrazia autoritaria” d’impronta conservatrice e una “oligarchia liberale”: la definizione dell’Occidente è perfetta, e quindi indigeribile per i suoi volonterosi sostenitori, che vanno dalla Meloni a Ferrando e da Bocchino a Erri De Luca (tanto per rammentarci che la contesa tra destra e “sinistra” è ormai un reality…).

Essendo uno “storico, sociologo e antropologo”, il pensatore d’oltralpe non si ferma alla superficie dei fenomeni né perde tempo a contabilizzare costi e guadagni o a formulare insipidi giudizi morali: gli interessa poco distinguere fra l’aggressore “tattico” e quello “strategico” e si sforza piuttosto di investigare le ragioni profonde di un conflitto non determinato da banali moventi economici. Capitolo dopo capitolo il terreno si fa sempre più instabile e al lettore tocca discendere, suo malgrado, in un sottosuolo oscuro e inquietante, una sorta di Ade in cui stati ridotti a larve si agitano e colpiscono a casaccio, senza visione prospettica, e dove non esistono regole, salvo forse una: quella ricalcata sul motto hobbesiano Homo homini lupus. Non le macchinazioni del Deep state o un coerente progetto ideologico, bensì uno sregolato avventurismo (l’istinto predatorio nudo e crudo?) ispirerebbe le mosse compiute dagli Stati Uniti sui vari scacchieri internazionali.

La spietatezza dell’analisi non risparmia lo “stato-macchina” tedesco, che va avanti alla cieca e quasi per inerzia, né una Gran Bretagna ormai priva di identità e la stessa Francia, deindustrializzata e ridotta a protettorato USA, ma particolarmente interessanti sono le pagine che vanno dalla 84 alla 125, dedicate all’“enigma ucraino”. Todd si domanda in cosa gli ucraini si differenzino effettivamente dai russi: non nella lingua – sostiene – che è una variante dialettale di quella parlata nel Paese vicino, ma semmai per via di una minor propensione al comunitarismo che si rispecchia in una struttura familiare più ristretta e meno inclusiva. Presso gli ucraini sarebbe maggiormente diffusa quella tendenza all’individualismo che, nel mondo anglosassone, ha favorito il sorgere della democrazia liberale: la distinzione tra “grandi” e “piccoli russi”, etnicamente affini, si riduce a questo particolare aspetto, però non marginale se è vero che induce l’autore a intitolare il paragrafo di apertura “L’Ucraina non è la Russia”.

Questa difformità non andrebbe forse enfatizzata: all’interno di uno Stato-continente qual è la Russia si possono riscontrare notevoli disparità fra regione e regione, soltanto alcune delle quali dipendono dall’origine degli abitanti. In una bella biografia di Rasputin scritta da un suo connazionale troviamo un’annotazione piuttosto significativa: il famigerato monaco proveniva dal territorio degli Urali, ove la servitù della gleba era assai meno diffusa che nella parte occidentale dell’impero zarista, comprendente quasi tutta l’attuale Ucraina. Ovviamente il diverso assetto sociale influiva sulle abitudini e gli atteggiamenti individuali: pur appartenendo allo stesso popolo e seguendo i medesimi riti religiosi i contadini liberi – anch’essi semianalfabeti e in genere poveri, se non indigenti – mostravano rispetto ai servi un minor timore reverenziale nei confronti dei membri delle classi agiate e una maggiore intraprendenza. Se dunque “l’Ucraina non è la Russia” è forse soprattutto perché ha scelto o è stata persuasa di non esserlo. Penso valga la pena di riportare una frase illuminante del capitolo citato, quello in cui Todd afferma testualmente (pagg. 118-119) che “L’irrealismo suicida della strategia adottata da Kiev suggerisce l’esistenza, per quanto paradossale, di un attaccamento psicologico dell’Ucraina alla Russia: un bisogno di scontrarsi che rivela l’incapacità di separarsi”. Nel 1991 l’Ucraina è divenuta, per la prima volta nella sua storia di “periferia”, una Nazione indipendente e si è trovata nella stringente necessità di crearsi un’identità di cui non disponeva. Non bastandole i poemi di Ševčenko né le gesta dei cosacchi immortalate da Gogol’ (in russo, e perdipiù in chiave antipolacca!), la nuova Ucraina ha confusamente avvertito l’esigenza di emanciparsi “ammazzando il padre”, vale a dire contrapponendosi – anche in armi – alla Russia, della cui vicenda storica fa senz’altro parte, e questo sebbene i tradizionali oppressori delle genti rutene risiedano non già in oriente, bensì in occidente. Sottolineando come all’inizio del secondo millennio Kiev fosse già una città fiorente e Mosca non esistesse ancora, alcuni “patrioti” finiscono paradossalmente per vantare una sorta di “russità” autentica e originaria, contrapposta a quella posticcia dei moskaly, vale a dire degli abitanti della Federazione, che sarebbero nient’altro che tartari. La cosa non deve stupire: anche nelle altre repubbliche ex sovietiche vivono oggi moltissimi russi, ma in Kazakistan o in Estonia (solo per fare due esempi) autoctoni e immigrati sono immediatamente riconoscibili dalla parlata, dai comportamenti e dai tratti somatici, mentre in Ucraina – così come in Bielorussia – gli abitanti appartengono quasi tutti allo stesso gruppo etnico e sono accomunati da tradizioni, credenze e stili di vita. L’emersione, a livello nazionale, di un simile complesso di Edipo è stato abilmente e cinicamente sfruttato dalle potenze atlantiche, che l’hanno incoraggiato in funzione antirussa. In effetti gli europei occidentali, che negli ultimi secoli hanno dato vita a nuovi stati in altri continenti, hanno costantemente guardato con sospettoso disprezzo i popoli dell’est e si sono sempre dimostrati restii ad accogliere la Russia (e pure la Turchia islamica) nel consesso delle potenze “civili”. Oggi l’Occidente ventriloquo dà voce ai propri pregiudizi razzisti mettendoli in bocca agli attivisti ucraini, che non si rendono conto di essere consumabili pedine poiché, agli occhi dei loro utilizzatori finali, sono null’altro che una sottospecie di russi. Si ripete pari pari il copione di ottant’anni fa: allora gli avi dei militanti di Azov eseguivano le azioni più abbiette e criminali per conto dei padroni nazisti, che ricompensavano i loro servigi trattandoli da “slavi subumani”. Il rimando storico, suggeritomi piuttosto da Goldhagen e Lilin che da Todd, aiuta a capire per quale motivo la guerra in corso debba essere combattuta “fino all’ultimo ucraino”: il compito assegnato alla comparsa Zelensky e alla sua cricca è quello di infliggere più danni possibile alla Russia e, al contempo, di esaurire le risorse umane locali in modo che non possano un domani rimpolpare le schiere del nemico (di Washington). La vera debolezza della Federazione consiste – annota Todd – nella sua bassa densità demografica, aggravata da un progressivo spopolamento: 146 milioni di abitanti sono un’inezia, se rapportati a una superficie di diciassette milioni di chilometri quadrati. Se teniamo presente che una quarantina di anni fa la popolazione dell’URSS sfiorava i 260 milioni non fatichiamo a concludere, da un lato, che quelle dei nostri propagandisti su una probabile invasione dell’Europa “per arrivare fino a Lisbona” sono fantasie deliranti, dall’altro che più che l’annessione del Paese vicino sarebbe prezioso per Mosca (ri)russificarne gli abitatori, scesi però negli ultimi decenni da cinquanta a poco più di venti milioni. Un’ipotetica riunificazione dei due stati sotto la bandiera tricolore costituirebbe un incubo per il blocco atlantico, che quindi – aizzando le due parti l’una contro l’altra – ha già raggiunto l’obiettivo minimo: desertificare la nazione “supportata”. L’accusa di imperialismo rivolta con faciloneria a Putin è dunque una colossale idiozia: questo straordinario statista (il mio, si badi, non è un giudizio morale, ma “tecnico”) ha salvato il proprio Paese dallo sfacelo cui stava andando incontro, ma potrà solo differirne il declino, visto che i missili ipersonici non fanno figli e l’invito rivolto agli occidentali “Venite a vivere in Russia” sembra più che altro una boutade, al massimo un pio desiderio.

Le ultime considerazioni svolte sono farina del mio sacco, e non è certo che Emmanuel Todd le condividerebbe appieno, così come io rimango perplesso di fronte alla sua minimizzazione del ruolo statunitense nella genesi della pseudorivoluzione di piazza Maidan, che a me pare provato e indiscutibile, e nel sostegno alle primavere arabe, evidentemente eterodirette. Saranno forse allo sbando gli Stati Uniti, ma che seguano pervicacemente una strategia di destabilizzazione su scala globale mi sembra difficilmente confutabile: i “brogli legali” che hanno riportato al potere Maia Sandu in Moldavia contro la volontà della maggioranza dei cittadini residenti non sono frutto del caso. 

La netta, recentissima vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA potrebbe però sparigliare le carte: un leader isolazionista, arrogante e imprevedibile ma meno bellicoso dei dem e piuttosto schietto (i servi li tratta da servi, evitando ipocriti giri di parole) potrà forse, senza che l’interessato ne abbia piena coscienza, restituire ai Paesi europei un insperato margine di autonomia, e in tal modo indebolire la posizione degli esponenti del PUA (Partito Unico Atlantista) di destra/sinistra/centro che li amministrano da procuratori degli States. Quello appena formulato è un mero auspicio, una scommessa, ma l’elezione della Harris ridens avrebbe significato una prosecuzione dell’aggressiva politica imperialista che Biden ha portato avanti anche da zombie.

fonte:

Di BasNews

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