Da troppi anni Roma versa in una situazione di disagio e abbandono, specialmente nelle sue aree più periferiche e popolari. Quel che accade a Roma è ormai arcinoto: carenza di servizi, emergenza abitativa, buche su ogni tipo di strada, spazzatura che resta non raccolta per giorni, disservizi al trasporto pubblico locale, impoverimento dell’offerta culturale. La lista sarebbe ancora lunga, ma fermiamoci qui. Come vedremo, si tratta del frutto di precise scelte politiche messe in atto, senza distinzione di colore politico, dalle amministrazioni che hanno guidato Roma negli ultimi decenni. Chi ha governato Roma, infatti, ha scelto di brandire e usare l’austerità imposta dalle norme nazionali ed europee per effettuare tagli su tagli al tessuto pubblico e sociale della città.
Lo Stato centrale e, a cascata, tutti gli enti locali devono sottostare al pareggio di bilancio previsto dai trattati europei (il famigerato Fiscal Compact), che meglio di ogni altra regola incarna il disegno politico dell’austerità. Significa, in breve, che amministrazioni centrali ed enti locali possono spendere (per garantire servizi) solo nella misura in cui riscuotono (tramite le tasse), senza avere la possibilità di indebitarsi per coprire le spese non coperte dalle entrate fiscali. Al di là della retorica liberista, questo dispositivo ha degli obiettivi economici e politici ben precisi: vietare il ricorso alla spesa in disavanzo significa far venir meno il principale strumento di stimolo alla crescita economica, rendendo in questo modo impossibile una piena fornitura di servizi, lo sviluppo della città e, in ultima istanza, il perseguimento della piena occupazione. Non è un caso che tutte le principali capitali europee abbiano fatto ricorso al debito per poter sostenere quelle spese che hanno garantito lo sviluppo urbano: la città di Berlino, esempio di efficienza e con un’offerta di servizi che va ben al di là di quella romana, ha un debito di 60 miliardi di euro; Londra è indebitata per 12 miliardi di sterline; Madrid assorbe il 25% di tutto il debito pubblico spagnolo; la città di New York, infine, ha un debito di 1,2 miliardi di dollari. Anche qui, l’elenco sarebbe ancora lungo, ma il messaggio è che far crescere, sviluppare e manutenere una città, specialmente se di grandi dimensioni come Roma, costa, e costa certamente più di quello che i residenti possono pagare di tasca loro con le tasse, già straordinariamente elevate a livello locale rispetto al resto d’Italia.
In questo contesto, tuttavia, chi amministra una qualsiasi città europea si deve confrontare con il già citato pareggio di bilancio e con i suoi effetti su tutti gli enti locali. Se un qualsiasi amministratore locale del nostro Paese decidesse di spendere, per la sua città, più di quello che riscuote con le tasse, finirebbe per incrementare l’intero debito pubblico italiano. Di conseguenza finirebbe, con ogni probabilità, sotto l’occhio malevolo del Governo centrale. Ciò accade perché il pareggio di bilancio va rispettato in aggregato come Paese, e la funzione degli enti locali è quella di collaborare al raggiungimento di tale obiettivo. Ed ecco che le città si vedono costrette a tagliare la spesa per servizi o ad alzare i proventi. Inoltre, la necessità di reperire risorse spinge molti enti locali a privarsi del proprio patrimonio tramite privatizzazione di aziende ex municipalizzate o vendita del patrimonio immobiliare, spesso a prezzi favorevolissimi per quei pochi che, opportunisticamente, acquistano. E Roma in particolare, con il suo sterminato patrimonio artistico, culturale, il suo enorme bacino di servizi pubblici e il suo immenso patrimonio immobiliare, costituisce una preda molto ambita.
Le conseguenze più immediate sulla pelle dei cittadini romani e di tutti i Comuni costretti a operare tagli particolarmente gravosi sono sotto gli occhi di tutti. In ossequio ai dettami europei, si inasprisce la pressione fiscale e si tagliano servizi fondamentali: addio interventi urbanistici, edilizia pubblica, manutenzione del servizio idrico e del manto stradale, trasporto pubblico locale, manutenzione delle scuole, spesa per beni e attività culturali. Questo comporta che le città, soprattutto le periferie, diventino sempre più invivibili.
Ma c’è di più. Dal 2008, a Roma è entrata in scena la ‘gestione commissariale’. Sostanzialmente, la gestione del bilancio è sottoposta ad un controllo esterno, quello di un Commissario nominato dal Governo, in quanto il Comune aveva accumulato circa 12 miliardi di debito. Nel 2019, il decreto ‘Salva Roma’ ha previsto la fine della gestione commissariale per il 2021, e su questo fronte sono ancora attesi sviluppi. Ad oggi, in ogni caso, la gestione del debito, condotta da amministrazioni di centrosinistra, centrodestra e Cinque Stelle, ha di fatto schiacciato la capitale e soprattutto le fasce più deboli della popolazione che vi risiede, quelle che più necessitano di servizi pubblici.
Come dicevamo, Roma deve raggiungere il pareggio di bilancio, in ossequio all’applicazione dei trattati europei. Andando ad analizzare il bilancio della città, però, notiamo come ogni anno appaiano, insieme alle altre voci di spesa, 200 milioni di euro che non sono destinati a servizi pubblici e a beneficio della collettività, ma sono invece ‘sequestrati’ da un inflessibile piano di rientro con il quale Roma contribuisce al ripagamento del suo debito accumulato. Questi 200 milioni vengono infatti deviati su un apposito ‘bilancio straordinario’, una creatura che, a partire dal 2008, fornisce la misura delle risorse che vengono sottratte alla città e dedicate al rimborso dei 12 miliardi di debito pregresso. In altri termini, dal 2008 Roma non opera in pareggio come potrebbe sembrare ad un primo sguardo al bilancio ‘ordinario’, ma in avanzo, ogni anno, per 200 milioni. Detto in soldoni, il valore dei servizi offerti dalla città è ben minore delle tasse (e delle multe) pagate dai romani. A questi 200 milioni, recuperati dal Comune attraverso l’addizionale Irpef più alta d’Italia (ossia, tramite una extra-tassa sui redditi, compresi quelli da lavoro), se ne aggiungono altri 300 l’anno versati dallo Stato, e sappiamo che le tasse sui redditi da lavoro sono una delle principali voci di entrata dell’Erario.
Diamo un rapido sguardo ai bilanci per comprendere meglio la dinamica in atto. Nel 2007, il Comune di Roma raccoglieva 1,4 miliardi tra tasse e tributi, mentre nel 2019 arrivava a 2,5 miliardi. Le imposte locali sono passate nello stesso periodo di tempo da 530 a 900 euro annui pro-capite. I proventi delle multe si attestavano sui 300 milioni nel 2008, per toccare un picco di 500 milioni nel 2015. Il tutto a fronte di un reddito pro-capite stagnante, fermo, da ormai 10 anni, sui 23 mila euro annui, contro gli oltre 30 mila di città come Milano (per le quali il maggior gettito rende il pareggio di bilancio un vincolo meno stringente). Redditi relativamente bassi e stagnanti, combinati a tasse e imposte che aumentano, implicano, inequivocabilmente, perdita del potere d’acquisto per i cittadini e in particolare per i lavoratori. Roma avrà compensato tale perdita attraverso una maggiore offerta di servizi? Assolutamente no, e non poteva che essere così stando al combinato disposto del pareggio di bilancio e del piano di rientro. Anche qui, qualche dato: dal 2007 al 2019, spese e investimenti in urbanistica e territorio sono passati da 253 a 38 milioni, mentre quelli per l’edilizia pubblica e popolare da 89 a 10 milioni; le spese per la mobilità e i trasporti sono state dimezzate, passando da 1,9 miliardi a 1 miliardo (tra queste le spese per la manutenzione delle strade è scesa da 236 a 202 milioni); le spese e gli investimenti sul fronte dell’istruzione e del diritto allo studio sono passate da 510 a 409 milioni; le spese e gli investimenti per il servizio idrico da 40 a 8 milioni; le spese per la cultura da 187 a 125 milioni; le spese per lo sport e il tempo libero da 18 a 11 milioni. L’emergenza Covid-19 non può far altro che peggiorare questo quadro, in quanto la perdita di posti di lavoro e di reddito farà verosimilmente diminuire le entrate: per continuare a rispettare il pareggio di bilancio, si dovrà, prima o poi, rivedere ulteriormente al ribasso qualche voce di spesa.
Sono numeri impietosi che raccontano una storia di tagli e di riduzione dell’offerta di servizi che ha coinvolto tutte le amministrazioni che si sono alternate al Campidoglio, e che hanno contribuito, nel rispetto del pareggio di bilancio e del piano di rientro, a fare restare Roma schiacciata nella morsa del debito. Nulla di tutto questo è, però, un elemento naturale e immutabile. Far pagare il debito alle cittadine e ai cittadini con le tasse è una scelta politica, dunque suscettibile di essere cambiata con le prossime elezioni. Il riscatto di Roma passa necessariamente per la rottura di questo vincolo: i soldi per garantire servizi pubblici degni di questo nome si trovano abolendo la regola del debito imposta con il Commissariamento. L’obiettivo, quindi, non è liberarci dal debito, ma dal ricatto del debito. Il problema, infatti, non è il debito in sé, ma come questo debito viene amministrato. Anche se immaginassimo di liberarci dall’onere del debito pregresso, ci ritroveremmo col cappio al collo del pareggio di bilancio, lo stesso che costringe Roma, oggi, a spendere solo nella misura di quanto incassa, quando invece servirebbero sforzi pubblici ben più importanti per garantire servizi decenti e decoro a molti quartieri della città.
Come uscire, dunque, da questo ricatto? Innanzitutto, con un progetto politico che preveda una serie di interventi che possano effettivamente dare sostegno alle istanze delle classi popolari, un progetto fatto di investimenti massicci nei servizi pubblici, che migliorano le condizioni materiali di vita della stragrande maggioranza della popolazione cittadina. A questo punto sorge spontanea la domanda: come si può fare tutto ciò? Qualsiasi amministrazione che intenda affrontare seriamente questo tema sarà chiamata a scontrarsi con le attuali regole della finanza pubblica e dovrà emanciparsi dal giogo del pareggio di bilancio e dal cappio del piano di rientro. Per risollevare Roma e restituire dignità alla città delle classi meno abbienti, quella che esiste fuori dal lusso di un centro ormai iper-turistificato, serve spendere, non ci si può girare intorno. Sarà necessario fare tutto il debito che serve. Lo si può fare emettendo titoli pubblici, al pari di quanto fa lo Stato, e reperendo in questo modo le risorse necessarie a fare le spese di cui Roma e le sue classi popolari hanno bisogno.
Qui vengono al pettine i nodi politici dei problemi economici che stanno mortificando la città di Roma. Un’eventuale rottura dei vincoli di bilancio da parte di un singolo Comune, infatti, porterebbe inevitabilmente verso l’ipotesi di commissariamento di quel Comune da parte del Governo centrale. Per garantire il rispetto del piano di rientro imposto agli enti locali, infatti, lo Stato centrale può arrogarsi il diritto di commissariare un Comune, sostituendo al sindaco eletto dal voto popolare un Commissario straordinario che funge da liquidatore fallimentare, incaricato di imporre ai romani il piano di rientro. Questo è un piano ineludibile del confronto politico: qualsiasi forza politica che voglia risollevare le sorti della città di Roma deve sfidare il Governo centrale sul tema del debito e confrontarsi con l’inevitabile minaccia di commissariamento. Sarebbe allora chiaro che i soldi ci sono, se c’è la volontà politica: da un lato, ci sarebbe un Sindaco che vuole garantire condizioni di vita civili nella sua città, costi quel che costi, e dall’altro un Governo centrale che è interessato solo a garantire il rispetto dell’austerità europea, costi quel che costi.
Il commissariamento di Roma ci insegna, plasticamente, che il problema non è il debito in sé, ma i tagli e l’austerità imposti per abbattere il debito. La battaglia per una Roma migliore, quindi, passa per una precisa scelta di campo: si può scegliere di continuare a rendere la quotidianità di chi non appartiene alle classi privilegiate una corsa ad ostacoli, fatta di disagio e abbandono, brandendo l’arma dell’austerità e del piano di rientro; oppure si può scegliere di schierarsi dalla parte della stragrande maggioranza dei cittadini di Roma, che chiede più servizi pubblici, un trasporto pubblico funzionante, una città dove l’immondizia non è un elemento del panorama urbano e molto altro. La seconda opzione è percorribile, è reale, e richiede di allargare l’orizzonte oltre il Grande Raccordo Anulare, andando a mettere in discussione tutti quei vincoli europei che fanno arricchire pochi profittatori sulle spalle e sulla fatica dei moltissimi. Noi sappiamo da che parte stare.
Coniare Rivolta
Collettivo di economisti
fonte: l’antidiplomatico – https://www.lantidiplomatico.it