di Eusebio Filopatro
Il 26 luglio 2023 gli uomini della guardia presidenziale nigerina hanno catturato il presidente Mohamed Bazoum, dando inizio ad un colpo di stato.
L’evento ha brevemente spostato i riflettori verso il Sahel, una delle regioni più trascurate e povere del mondo, che pure con buone ragioni è stata definita la frontiera meridionale d’Europa (da ultimo in una lettera di Roberta Pinotti a Repubblica).
Nella presente serie di articoli mi propongo (1) di contestualizzare il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni, e in particolare sullo sfondo della travagliata dissoluzione del neo/postcolonialismo francese, (2) di valutare le prospettive e le difficoltà di un eventuale intervento ECOWAS, e (3) di inserire queste considerazioni nello scenario internazionale più ampio, in particolare rispetto alle aspirazioni realistiche che l’Europa se non l’intero Occidente può mantenere rispetto al suo (dis)impegno in Sahel e in Africa.
Prima parte
Niger: Le ragioni di un golpe
In un articolo del 1989, Guy Martin ricostruiva le relazioni franco-africane da un punto di vista spinoso: l’estrazione dell’uranio. Martin introduceva la questione del Niger chiarendo senza troppi giri di parole che esso “può anche essere descritto come un’enclave neocoloniale dominata dagli interessi politici, economici, culturali e strategici francesi” (p. 634). In conclusione, alla sua disanima, Martin suggeriva anche un’interpretazione inquietante quanto plausibile del golpe del ’74:
“Nel marzo 1974, i rappresentanti di Francia, Niger e Gabon si incontrarono a Niamey per discutere della domanda e dell’offerta di uranio, ma a causa del rifiuto della delegazione francese di prendere in considerazione qualsiasi aumento del prezzo per i produttori, si decise di sospendere i negoziati e di riprenderli il mese successivo. È difficile credere che sia stata una completa coincidenza che il Presidente Diori sia stato rovesciato da un colpo di Stato militare appena 72 ore prima della ripresa dei negoziati tripartiti, e appena 48 ore prima che Diori partisse per New York, dove era previsto un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul tema delle materie prime.” (p. 637).
Insomma, storicamente, anche dopo la cessazione formale del colonialismo (1897-1960), è difficile descrivere i rapporti tra Francia e Niger se non come a una forma di imperialismo estrattivo, peraltro rivolto da uno degli stati più prosperi del mondo, una potenza nucleare e membro del Consiglio di Sicurezza, contro il paese che è terzultimo per indice di sviluppo umano.
Anche se scarseggiano analisi scientifiche altrettanto franche, comprensive e dettagliate quanto quella di Guy Martin, non ci si deve illudere che negli ultimi decenni la situazione sia sostanzialmente cambiata. E questo non a detta di media antioccidentali, siano essi russi o cinesi, o degli studiosi “radicali” che operano nello stesso occidente: sono invece le stesse testate occidentali, assieme alla diaspora nigerina, a testimoniare i problemi drammatici che hanno contribuito al rovesciamento di Bazoum.
Tra 2010 e 2014, il Guardian ha pubblicato una serie di articoli (ad esempio 1,2,3,4) che rivelavano non solo la mancata implementazione delle misure di sicurezza per le miniere di uranio promesse da parte della francese Areva (poi confluita in Orano), ma anche i difficili e poco trasparenti negoziati con il governo nigerino. I proventi del colosso francese dell’uranio superavano di 4 volte l’intero bilancio del Niger, e i negoziati riguardavano l’incremento delle royalties da un misero 5% al 12%. Nonostante non fosse neppure in discussione che circa nove decimi del ricavato dall’uranio rimanessero alla francese Areva, alla quale il Niger ha anche assicurato colossali esenzioni fiscali, Areva sosteneva che concedere un ulteriore 7% allo stato nigerino avrebbe reso insostenibile il suo modello d’affari. La conclusione dell’accordo non ha sostanzialmente intaccato questa relazione sbilanciata e, si sospetta, forzata. Addirittura, l’ONG “pubblica ciò che paghi” (Publish What You Pay) che monitora il pagamento ai governi da parte delle multinazionali che si occupano di risorse naturali, sostiene che Areva-Orano avrebbe diminuito le royalties grazie a un deprezzamento dell’uranio nigerino. Ancora nel 2017, un eccellente reportage di due giornalisti, il belga Lucas Destrijcker e il maliano Mahadi Diouara, rivelava al mondo l’impatto devastante dell’estrazione dell’uranio nella città nigerina di Arlit. Citando organizzazioni e testimonianze locali, Destrijcker e Diouara spiegavano ad esempio che, mentre la popolazione locale era priva di acqua corrente, la miniera consumava miliardi di litri della falda acquifera locale, e delle interviste condotte su 688 impiegati nel sito mostravano che circa un quarto aveva sofferto gravi problemi di salute, al punto che 125 avevano dovuto abbandonare il lavoro per disturbi presumibilmente legati alla tossicità dell’uranio. Nel 2012, un tribunale francese ha condannato Areva per la morte di tumore di Serge Venel, ma ovviamente l’accesso a un tribunale è ben al di là delle possibilità dei minatori nigerini. Anche il convincimento della stampa occidentale sulla “democraticità” di Bazoum sembra essere cosa recente. Il 25/6/20 Libération parlava di “politica repressiva nel silenzio colpevole della Francia” e di “degrado delle libertà pubbliche” in un articolo sugli arresti di attivisti anti-corruzione. Nel 2021, Amnesty International segnalava arresti di massa, violenze, e censura di internet in seguito alle contestate elezioni. Ancora più chiari sono una serie di comunicati ed editoriali apparsi negli ultimi anni sul sito ufficiale della diaspora nigerina, www.nigerdiaspora.net. Il 24/06/23, quindi un mese prima del colpo di stato, uno di questi si rivolgeva accoratamente al presidente Bazoum, spesso accusato di essere un fantoccio nelle mani della Francia, riguardo alla conferma della presenza militare francese in Niger: “Vi avrei consigliato di prendere le distanze dalla Francia, incapace di liberarsi del suo spirito neocoloniale e di fornire al nostro Paese ciò di cui ha davvero bisogno, senza dover subappaltare la sua sicurezza a nessun altro”. Altrattanto negativo è quindi ben diverso dalla narrazione giornalistica, è il giudizio sul governo di Bazoum espresso da Padre Mauro Armanino, un missionario italiano che risulta tuttora presente in Niger. Scrive Armanino sul suo blog:
“Mohamed Bazoum è il successore – nonché il prescelto – di Mahamadou Issoufou, entrambi fondatori del PNDS. Il decennio di potere del suo mentore, contrariamente all’opinione occidentale e africana, ha gradualmente contribuito ad affossare la fragile democrazia nel Paese. Demoliti i partiti, eliminato l’oppositore principale Hama Amadou, divisa per compravendita la società civile e, infine, l’operazione seduzione ‘pecuniaria’ per la classe intellettuale del Paese, la democrazia si è trasformata nel regno tentacolare e fondamentalmente corrotto del PNDS. Bazoum, malgrado la complicità degli osservatori internazionali che hanno ratificato i risultati dello scrutinio delle ultime presidenziali del 2021, è stato eletto in modo fraudolento.”
Infine, il drammatico deterioramento della sicurezza in Niger è pure segnalato a margine delle ambiziose – e fallimentari – iniziative di cooperazione che in anni recenti l’Unione Europea ha rilanciato con il “G5 Sahel”. Questo gruppo di stati, formalizzato nel 2014 e con sede a Nouakchott, comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad: cioè, paesi la cui maggioranza è nel frattempo passata al di fuori dell’orbita d’influenza europea per una serie di colpi di stato. Limes lo presentava come un “consesso regionale fortemente sponsorizzato (anche economicamente) dall’Unione [Europea]”. Ebbene in questo quadro già nel 2018 l’ISPI definiva il Niger “il perno instabile della politica UE nel Sahel” e nel rilevare il protagonismo dell’allora Ministro dell’Interno Mohamed Bazoum, ne citava il (poco) democratico compiacimento nel sopprimere le manifestazioni della società civile: ““li abbiamo arrestati come polli”, si rallegrava Bazoum. Le motivazioni dei manifestanti? “Aumento dell’IVA e delle imposte su beni di prima necessità, dal riso all’acqua corrente, avrebbero colpito le fasce deboli della popolazione”. E nel 2018, più generalmente, prima di rilanciare le ambiziose affermazioni di Tajani su un “Piano Marshall” per il continente africano, lo IAI riportava che “il Sahel è negli ultimi anni diventato una regione fuori controllo in cui, grazie alla vastità dei luoghi e al caos politico, trovano rifugio jihadisti pronti a riorganizzarsi”. In questo contesto, sebbene sia già stato scritto ampiamente in proposito, è impossibile non sottolineare gli effetti destabilizzanti della distruzione della Libia scientemente voluta dai poteri occidentali, come del resto denunciava già nel 2014 lo stesso Bazoum, stavolta da Ministro degli Esteri.
Insomma, a conclusione di una pur rapida carrellata sull’argomento, e rivedendo la stessa stampa occidentale ed europea, inclusi alcuni articoli di analisi, accanto all’imprescindibile voce della diaspora nigerina e delle (poche) voci indipendenti dal posto, si riscontrano gli stessi problemi di instabilità, impoverimento, corruzione, e sfruttamento coloniale denunciati dai golpisti come motivazione per il loro atto di forza. Al contrario, l’insistenza sulla cristallina democraticità del deposto presidente Bazoum suona perlomeno esagerata, anche perché il medesimo ha occupato posizioni di responsabilità al vertice della politica nigerina per più di un decennio, durante il quale i gravi problemi che affliggono il popolo nigerino non sono stati risolti.
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