Com’era la storia? Che questo è il governo del popolo, che avrebbe finalmente allontanato i banchieri dal governo ristabilendo il primato della politica?
A leggere il profilo del nuovo direttore generale del Tesoro, di fatto il braccio destro del ministro dell’Economia nonché lo stratega delle strategie macroeconomiche dell’esecutivo, viene qualche dubbio. È notizia di oggi che Giorgia Meloni abbia deciso di sostituire Alessandro Rivera, che era riuscito a passare indenne l’avvento del governo gialloverde, il rientro al governo del centrosinistra e l’arrivo di Super Mario, con un personaggio dal curriculum alquanto bizzarro, almeno dal punto di vista degli elettori di FdI.
Parliamo di Riccardo Barbieri Hermitte, il cui doppio cognome già sarà per qualcuno indizio di plutocrazia e privilegio. A scorrere il suo curriculum c’è da rimanere impressionati: nato a Roma ma formatosi a Milano (dove si è ovviamente laureato alla Bocconi col massimo dei voti), il nuovo plenipotenziario ha proseguito la sua formazione in America con l’immancabile dottorato in economics alla New York University studiando in particolare, guarda un po’, finanza internazionale. Nel corso della sua carriera lavorativa è passato per tutte le principali banche d’affari internazionali: da J.P. Morgan a Merrill Lynch e Morgan Stanley Barbieri non si è fatto mancare neanche un simbolo del capitalismo d’assalto. Ciliegina sulla torta globalista è stato poi l’impegno come chief economist per la Mizuho International, filiale europea della banca d’investimento nipponica Mizuho Securities.
Come se non bastasse, il nostro ha solidi legami con la sinistra, che lo fece rientrare in Italia nel 2015 sotto il governo Renzi per nominarlo capo della Direzione Analisi economico-finanziaria del Tesoro. Da allora Barbieri è rimasto al Mef, lavorando fianco a fianco con lo stesso Rivera a tutti i dossier più spinosi e collaborando alla scrittura dei principali documenti di programmazione economica.
A dar credito alle ricostruzioni del Corriere della Sera sembra che la nomina sia stata voluta da Giorgetti, che probabilmente si sarebbe tenuto volentieri Rivera ma, di fronte all’insistenza della Meloni che voleva assolutamente liberarsene (chissà se per la gestione troppo prudente dei dossier Mps e Alitalia/Ita o per certe figuracce che i mandarini del Ministero hanno fatto fare al governo nel corso della stesura della Finanziaria) sia riuscito a imporre un interno che già è rispettato all’interno della macchina statale. Nome che tra l’altro ha ottime entrature nel mondo della finanza e presso le istituzioni europee e quindi darà di certo una mano al governo nel presentare l’Italia come un paese tuttora affidabile e degno di credito (in tutti i sensi).
Certo di fronte a una nomina di questo tipo, fatta attraverso una promozione interna, le bellicose parole del ministro Crosetto che nelle scorse settimane in un’intervista al Messaggero aveva promesso “il machete” contro “i funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa”, perdono un po’ di mordente.
Ah, nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato, Barbieri non è l’unico direttore generale del Tesoro con in curriculum importanti esperienze con le banche d’investimento. L’altro fu un certo Mario Draghi, che occupò quella poltrona dal 1991 al 2001. Ricordiamocelo la prossima volta che ci vengono a raccontare del governo di rottura contrapposto ai poteri forti.
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