Nel fallito golpe russo si possono rinvenire topos narrativi già noti. Uno tra i più gettonati è che in realtà Putin fosse d’accordo con Prigozhin, che cioè il golpe fosse finto, brandito per far venire allo scoperto i traditori in seno all’apparato russo. Si disse anche per il fallito golpe che nel 2016 avrebbe dovuto spodestare Erdogan. Ed erano sciocchezze, come le attuali.
Il golpe era vero ed è stato gestito in maniera intelligente dallo zar, tanto da farlo rientrare in meno di 24 ore senza versare una goccia di sangue (qualche scaramuccia, qualche vittima, ma azioni più che isolate). Si può immaginare se fosse accaduto in America: un’armata ribelle prende il controllo di un’importante città e marcia sulla capitale.
L’aviazione avrebbe decimato l’armata in marcia e l’esercito preso d’assalto la città. Decina di migliaia di morti, lo spettacolo di una lotta fratricida che Putin non ha voluto regalare ai suoi nemici.
Ma torniamo ai fatti. I media americani hanno riferito che l’intelligence Usa conosceva da giorni le intenzioni di Prigozhin. Alquanto ovvio, non occorre essere dei geni per capire che Prigozhin si è mosso in combinato disposto con l’Occidente (vedi le dichiarazioni di Scott Ritter, ex analista Cia, sul fatto che fosse stato “arruolato”). Com’è altrettanto ovvio che neghino contatti col ribelle.
Ed è altrettanto ovvio che Putin aveva contezza di quanto si stava preparando. Nel nostro piccolo, avevamo rilevato l’inaffidabilità di Prigozhin già il 12 giugno scorso, con una nota che discendeva da indizi pregressi. I russi hanno strumenti più efficaci dei nostri per vagliare…
Come nel ’17
Allora perché lo hanno lasciato agire? Il fatto è che il golpe era molto più complesso, non poteva basarsi certo solo sui 25mila armati alle dipendenze dell’ex cuoco. Lo ha detto anche Putin quando nel suo discorso alla nazione ha evocato la rivoluzione di ottobre.
Nel ’17 Lenin raggiunse la Russia con un pugno di militanti, ma tanti e potenti erano in attesa della scintilla che avrebbe acceso il fuoco divorante che avrebbe incenerito l’impero zarista. Così il problema non erano i quattro mercenari agli ordini di Prigozhin, ma quanti, nell’Impero, condividevano il piano.
Ma torniamo alla ribellione. In precedenza avevamo scritto che essa avrebbe dovuto scatenarsi in concomitanza dello sfondamento delle linee difensive russe in Ucraina. Le critiche al Comando militare russo avanzate da Prigozhin da tempo avrebbero così avuto una consistenza difficilmente eludibile e la sua marcia su Mosca uno slancio diverso.
Ma lo sfondamento del fronte non arrivava. Allo stesso tempo, sulle sorti dell’ex cuoco, pedina chiave del golpe, incombeva la data del 1 luglio, giorno entro il quale le milizie mercenarie avrebbero dovuto sottoscrivere un contratto con la Difesa che le poneva sotto il suo controllo.
Prigozhin aveva già dichiarato che non avrebbe firmato, una posizione che dopo il 1 luglio avrebbe assunto i connotati di una ribellione aperta contro lo zar, che aveva emanato l’ordine. Non avrebbe potuto essere tollerata: l’ex cuoco poteva finire ai ferri.
Anticipare i tempi
Così Prigozhin e i suoi sponsor hanno deciso di non aspettare più lo sfondamento e di avviare la rivolta prima della data fatidica. Ma Putin sapeva perfettamente che il problema era il supporto interno. Così mentre la Wagner faceva i suoi passi, il Cremlino iniziava a muoversi nel segreto.
E, nella mattina critica, i più autorevoli leader russi (politici e istituzionali) sono stati chiamati a dire da che parte stavano. Così si succedono le dichiarazioni pubbliche a sostegno del presidente, altre saranno state fatte in forma più privata. Il lavorio che gli apparati fedeli allo zar hanno portato a termine in quelle ore resterà un mistero, ma è evidente che ha avuto successo.
Sappiamo anche che, nel frattempo, si avvia una trattativa con Prigozhin, allo scopo di convincerlo a non versare sangue e a farlo partecipe di quanto stava avvenendo nel segreto.
Questo spiega l’assenza di un contrasto della colonna in marcia verso Mosca: in campo aperto, era un bersaglio perfetto per i jet russi, che l’avrebbero messa in rotta facilmente. Ma non serviva.
Occorreva, invece, isolare Prigozhin e fargli capire la situazione. Una volta rimasto solo, restava solo assicurare all’ex cuoco e ai suoi congiurati che la resa gli avrebbe garantito salva la vita, così da evitare colpi di coda. Così è stato concordato l’esilio in Bielorussia per Prigozhin. La sua milizia, invece, tornerà al fronte, ma sotto il controllo dell’esercito.
Prigozhin come Guaidò
Quanto avvenuto ha un’analogia: il tentativo di golpe attuato da Juan Guaidò in Venezuela nel 2019. Scelto dall’Occidente come oppositore di Maduro, Guaidò aveva avviato un braccio di ferro con il governo e, dopo una serie di vicissitudini, era finito agli arresti domiciliari.
Gli Stati Uniti, come rivelò Axios, misero allora a punto un golpe armato, arrivando a portare dalla loro, almeno così pensavano, alte sfere del potere di Caracas. Così, nel giorno fatidico, Guaidò viene liberato e con un manipolo di armati prende il controllo di una caserma.
L’atto di forza avrebbe dovuto innescare il collasso del governo di Maduro, ma nel frattempo questi, avvertito del pericolo, si era mosso in segreto riprendendo il controllo di tutti gli apparati. Così Guaidò rimase solo nella sua caserma. Restava, quindi, da gestire la sorte del ribelle, al quale venne semplicemente dischiusa la via dell’esilio…
Taluni dicono che, a seguito della crisi, la sorte del generale Gerasimov, a capo delle operazioni in Ucraina, e del ministro della Difesa Shoigu, sarebbe segnata. Era la richiesta di Prigozhin e, ovviamente, non avrà seguito.
Quanti avevano scommesso sulla variabile Prigozhin per vincere la guerra contro la Russia hanno fallito. E, come avvenne nel 2016 in Turchia per Erdogan e com’è avvenuto nel 2019 in Venezuela per Maduro, il fallimento del golpe ha rafforzato Putin.
Fallito il coup de théâtre, all’Occidente restano le opzioni pregresse: continuare la sanguinosa guerra ucraina o cercare un compromesso.
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