di Emma Barbaro 17 Maggio 2021
l professor Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma e autore del libro Covid-19 tra mito e realtà. Luci e ombre della pandemia che ha travolto il pianeta – edito da Armando Editore – crede profondamente che la medicina di prossimità si traduca in una valida assistenza socio-sanitaria al prossimo. Chiunque esso sia e in qualunque parte del mondo si trovi. Perché se è vero, come ha più volte dichiarato pubblicamente, che con questo virus dovremo convivere ancora per qualche anno, è altrettanto vero che «dare la priorità alle persone fragili, in ogni luogo e in ogni contesto, non è questione di solidarietà. È un tema scientifico.»
Professor Morrone, partiamo dalle azioni messe in campo all’Istituto San Gallicano di Roma per il contrasto alla pandemia riguardo alle categorie sociali, e non solo sanitarie, più fragili.
Mai come in questo periodo si fa largo uso e abuso delle parole “fragilità” e “vulnerabilità”. Ma tutti evitano accuratamente di specificare, poi, quale sia il loro significato concreto. Perdendo così l’occasione di comprendere che i confini sono un’invenzione folle di cui virus e malattie non hanno alcun rispetto. Al San Gallicano non abbiamo fatto altro che riprendere l’attività che abbiamo sempre svolto su queste fasce di popolazione vulnerabili perché riteniamo che vadano poste al centro dell’attività sanitaria. Ci siamo resi conto che in questo periodo di mobilità ridotta era opportuno che il personale sanitario uscisse dagli istituti di cura e di ricerca per cercare luoghi, come Binario 95 alla stazione Termini o l’ambulatorio “Madre della misericordia” sotto il colonnato di San Pietro e altre associazioni che si occupano delle fragilità sociali, in cui offrire e rendere esigibili servizi di alta tecnologia scientifica. Servizi essenziali e ad ampio spettro che vanno a vantaggio di tutti.
Quando parla di servizi socio-sanitari essenziali si riferisce ai tamponi?
Non solo ai tamponi molecolari o sierologici, ma anche ad analisi complesse coi markers dell’epatite o di altre patologie per fare in modo che queste persone possano ricevere, come tutte le altre, un tipo di assistenza basata sul massimo livello scientifico praticabile. Non è ammissibile produrre per i più poveri o svantaggiati un’offerta di servizi di basso profilo. Anzi, è esattamente l’opposto. Più c’è una situazione di difficoltà, più l’offerta deve basarsi su un ambito di ricerca scientifica e tecnologica avanzata. Nel maggio scorso abbiamo cominciato a eseguire tamponi sierologici e molecolari perché queste persone avevano il diritto di essere curate nell’eventualità in cui avessimo riscontrato casi di positività. Nel corso dei mesi abbiamo eseguito migliaia di tamponi. Ma una volta trovati i positivi al Covid-19, la difficoltà maggiore è stata quella di riuscire a trovare un hotel Covid che accettasse di accogliere persone che vivono sulla propria pelle la marginalità sociale. In alcuni casi è stato necessario il ricovero in ospedale. Una volta ottenuta la possibilità di farle accogliere in una struttura ospedaliera o in un hotel Covid, abbiamo garantito loro un’assistenza a 360 gradi perché ci siamo occupati di tutte le altre patologie: diabete, ipertensione arteriosa, insufficienza cardiocircolatoria e così via. Questa è una delle attività di routine, per così dire, che un istituto scientifico di ricerca dovrebbe svolgere. Nel nostro caso, ha coinvolto tutti gli operatori.
Parliamo dei vaccini anti-covid. È plausibile che nel momento storico in cui la “fragilità” diviene una categoria prioritaria si lascino fuori dalle coperture vaccinali proprio quelle persone che vivono sulla propria pelle la vulnerabilità assistenziale e sociale? Loro quando saranno vaccinati?
Per quanto possibile, li stiamo già vaccinando. Abbiamo lanciato la campagna “vacciniamo tutti”. E, in tal senso, un grandissimo contributo l’ha offerto Papa Francesco che ha aperto le porte dell’aula Paolo VI alle vaccinazioni dei senza fissa dimora o delle persone in difficoltà. Come istituto scientifico e di ricerca noi, chiaramente, abbiamo partecipato con convinzione. Poi abbiamo lanciato l’idea che si possano vaccinare donne e bambini che vivono per strada o sono ospiti dei centri di accoglienza. Stiamo vaccinando malati oncologici e dermatologici gravi sottoposti alla chemioterapia e stiamo facendo delle indagini sugli anticorpi presenti prima e dopo la vaccinazione, sia dopo la somministrazione della prima dose che della seconda. Da un anno, attraverso svariati studi e ricerche scientifiche sul campo, stiamo cercando di capire quanto tempo permangono questi anticorpi negli individui soprattutto per poter contribuire al benessere dei più fragili sia da un punto di vista sociale che clinico. Indipendentemente, dunque, dalle persone che incontriamo.
Ma per pretendere in tal senso una posizione più netta del Governo, è necessario focalizzarsi sul tema della tutela della salute pubblica e della relativa prevenzione dal rischio di nuove varianti?
Sa come abbiamo fatto qualche tempo fa a convincere alcuni gruppi politici fortemente contrari all’immigrazione che era necessario il riconoscimento del tesserino STP (Stranieri Temporaneamente Presenti, ndr) per l’assistenza sanitaria? Gli abbiamo chiesto: preferite un soggetto che ha il permesso di soggiorno rispetto a uno che non ce l’ha o, piuttosto, preferite un soggetto che non abbia la tubercolosi rispetto a chi ce l’ha a prescindere dal permesso di soggiorno? Ecco, l’esempio è lampante. È necessario far comprendere a tutti che ci si occupa delle fasce a maggior rischio perché si rappresenta un pericolo per loro e per tutta la comunità. O ci si occupa di tutti, o è tempo perso. E questo non vale solo per il contrasto al Covid-19. La legge Turco-Napolitano, che fu trasversalmente contestata, oggi resta norma nella sua applicazione in ambito sanitario. È anche vero che alcune Asl non hanno avuto alcun interesse a farla applicare. Personalmente me ne occupo sia per quanto concerne le malattie infettive, sia per i tumori. Sa quante persone straniere o senza fissa dimora hanno difficoltà a farsi curare? E una volta che le abbiamo curate, magari per un tumore, come li sottoponiamo alla chemioterapia? Li rimettiamo per strada? Questi sono temi da affrontare in maniera intelligente. Perché un Paese che vuol darsi delle politiche socio-sanitarie di grande profilo come il nostro deve capire che è necessario mettere al centro del dibattito le fasce più fragili.
Ritorna, dunque, la questione della responsabilità delle singole Asl.
Veda, nel 1978 abbiamo lottato per avviare una riforma sanitaria che eliminasse il metodo delle mutue. Ebbene, questa riforma meravigliosa fa in modo che tutte le erogazioni sanitarie vengano offerte con uguale capacità a tutti. E nascono le Usl, Unità Socio-Sanitarie Locali. Dopo un po’ questa integrazione socio-sanitaria di fatto viene abbandonata e vengono fuori le Unità Sanitarie Locali che vengono poi trasformate in Aziende Sanitarie Locali dove, bene o male, la salute diventa una merce. Cioè anche il diritto alla salute rientra nel mercato della logica e del profitto e, nonostante tutti gli sforzi, chi oggi vive una situazione economica più agiata riesce non a curarsi meglio. ma certamente prima degli altri cittadini.
Quindi il problema è che la Sanità si è fatta Azienda?
Per rispondere a questa domanda basta guardare alle liste di attesa o ai tempi che servono per eseguire prestazioni sanitarie. L’unico reparto straordinariamente democratico è il Pronto Soccorso, che da anni non riceve quei finanziamenti in termini strutturali, professionali e finanziari che meriterebbe. Pur essendo l’ultima spiaggia per coloro che stanno male a tutti i livelli.
Dato il contesto, il Covid-19 ha acuito le disuguaglianze?
Il Covid-19 non ha generato disuguaglianze, semmai le ha messe in evidenza. A mio parere, squarciando il velo dell’ipocrisia sul fatto che siamo tutti uguali. Non è vero, siamo tutti diversi. Il virus, nel nostro Paese, non ha fatto altro che diffondersi in un contesto già diseguale in cui esisteva ed esiste una fetta di cittadini “invisibili”. Mi riferisco ai senza fissa dimora, ai pensionati a reddito minimo, ai disoccupati, agli immigrati irregolari o in via di regolarizzazione e sì, anche ai detenuti e agli operatori delle carceri. Per una serie di ragioni tutte queste persone non sono mai riuscite ad accedere a pieno titolo all’erogazione dei servizi sanitari minimi. Perché in fondo il destino di chi vive nei “circuiti difficili”, per così dire, è comune. Il Covid-19 non ha fatto altro che dimostrarlo.
Nel momento in cui si discuteva delle priorità vaccinali non si poteva fare questo salto di qualità?
L’occasione si è presentata quando il Primo Ministro ha cominciato ad affermare di volersi occupare delle fragilità. Ma sulle vaccinazioni abbiamo fatto una fatica enorme per far comprendere innanzitutto che dovevano essere considerate come prioritarie tutta una serie di categorie di persone. Poi si è discusso anche sul chi fossero questi cosiddetti “fragili”. Quindi si è parlato dei malati, degli ultra novantenni e ottantenni, poi degli insegnanti, delle forze dell’ordine, dei sanitari e degli operatori socio-sanitari. Ma tutte quelle persone che vivono per la strada, sono fragili oppure no?
Lo sono?
Certo che sì. Siamo ancora in una condizione di emergenza, e sulla base dell’emergenza si è stabilito quali fossero le categorie prioritarie da vaccinare. Tutto corretto, ma avevamo un dato scientifico: le persone malate o con patologie particolari dovevano essere vaccinate per prime perché l’eventuale infezione ne avrebbe potuto determinare il decesso. Poi esistono studi scientifici, e il dibattito è ancora aperto, sulle terapie per la cura delle infezioni da Covid-19 che non riguardano solo gli anticorpi monoclonali, che possono essere utili ma solo in una determinata fase. Quando, cioè, i medici di famiglia conoscendo la storia clinica del paziente sanno dare un’indicazione sulla somministrazione o meno degli anticorpi monoclonali. Tuttavia il rapporto tra il medico di famiglia e le eventuali condizioni di fragilità degli assistiti è saltato quando si è scelto come metodo per accedere alle vaccinazioni l’auto-registrazione sui portali messi a disposizione dalle varie Regioni. Con le farmacie, ora, vale lo stesso e identico principio. D’altra parte è anche vero che ci sono persone che non hanno il medico di famiglia. Penso, ad esempio, ai bambini stranieri figli di soggetti irregolari che non sono mai riusciti ad avere un proprio pediatra nonostante le normative lo indicassero. Mentre noi siamo dell’opinione, in accordo con l’articolo 32 della Costituzione, che ogni persona sul territorio italiano debba avere un medico di famiglia e la possibilità di essere curata.
Eliminando alla radice la questione delle fragilità, quante possibilità ci sono di sviluppare nel tempo nuove varianti resistenti ai vaccini?
È stato scientificamente dimostrato che se la vaccinazione non riguarda tutti gli individui c’è un rischio concreto per la popolazione. Lo dimostrano la variante inglese, la variante indiana, la variante Bangladesh di cui si discuteva l’anno scorso, o la variante sudafricana, che pure abbiamo trovato ed è ancora molto rara. Per fortuna non si tratta ancora di varianti “vaccine escape”, che sfuggono cioè alla copertura dei vaccini. Ma talvolta ne riducono l’azione fino a cinque o sei volte.
A proposito di variante indiana, qualche giorno fa a Roma e dintorni si è scatenata una sorta di “caccia all’indiano”…
Sì, nel Lazio si è cercato il virus nella comunità sikh. In quella comunità, insieme ad altri operatori di grandissimo valore come Marco Omizzolo, io ci ho lavorato. Avevano un ambulatorio loro, attività loro perché nel tempo non siamo riusciti a innescare fino in fondo quel processo di integrazione previsto dal sistema socio-sanitario nazionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La stessa cosa vale per le persone senza fissa dimora. In fondo, chi lo sa se durante le cosiddette “emergenze freddo” queste persone muoiono per il gelo o per malattie che nessuno ha mai diagnosticato e curato. Nel corpo umano non esistono confini. Pensi un po’ se possono davvero esistere confini tra comuni, regioni o Paesi del mondo. Virus e batteri da miliardi di anni si muovono attraversando gli oceani senza alcun problema.
Proprio perché i virus non conoscono confini, inizialmente si è guardato con molto favore al Covax, il programma internazionale per l’accesso equo ai vaccini. Lei che ne pensa?
Penso che sulla vaccinazione per il Covid o c’è una visione globale o è tempo perso. Ma non ho assistito a un’Assemblea a permanente delle Nazioni Unite su questo tema. Piuttosto ho visto che ogni Stato ha cercato una soluzione per conto proprio. E gli Stati più ricchi hanno acquistato un numero di dosi vaccinali incredibile. Per citarle qualche esempio, il Canada ha acquistato nove dosi vaccinali per ciascun cittadino canadese. Gli USA ben otto dosi per ogni cittadino statunitense. Poi c’è tutta una parte del mondo in cui l’acquisto è pari a zero. Nonostante il progetto Covax, che con il proposito di mostrare solidarietà tende forse ad alleggerire le coscienze dei Governi e delle aziende farmaceutiche. A mio avviso questo programma è a rischio. Anche perché c’è un paradosso di fondo: si sta cercando di trovare dosi di vaccino da regalare ai Paesi in difficoltà o in via di sviluppo ma si sa già che, non essendoci infrastrutture, nessuno potrà somministrarle. Avremmo dovuto contribuire a crearle quelle infrastrutture, e non lo abbiamo fatto.
Professore, ma allora come si può risolvere questa condizione d’emergenza? In soldoni, come ne usciamo dalla pandemia?
Sono certo che riusciremo a superare questa fase e questa emergenza. Ma sono anche convinto che, per farlo, non dobbiamo tornare a come eravamo prima della pandemia. Piuttosto dobbiamo migliorare e migliorarci salvaguardando la salute delle persone più fragili. In questi giorni si discute di Recovery Plan e Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr), ma non è una lista della spesa. Il dibattito va aperto nelle università, nelle scuole, nel mondo del lavoro, tra i sindacati, tra gli operatori sociali e sanitari, tra i parlamentari di qualsiasi schieramento, tra consiglieri comunali e regionali. La domanda è: come pensiamo di ricostruirlo questo Paese? A partire da chi, o da cosa?
Qualche giorno fa ho visitato un’anziana di 95 anni con un linfoma molto pericoloso. Per paura del Covid, questa signora viveva completamente isolata dagli altri e, per timore dei vaccini, la famiglia ha scelto di non farla vaccinare. Il tumore, nel frattempo, si è diffuso. Allo stesso tempo, ho partecipato a una conferenza internazionale sul Covid da nord a sud del mondo. Gli esperti africani e mediorientali ci hanno comunicato, in diretta e con dati alla mano, che la paura di contagio da Covid ha ridotto tutta una serie di servizi già molto poco sviluppati. Per cui sono aumentati i casi di Aids, malaria, tubercolosi. Cosa voglio dire? Che dare la priorità alle persone fragili, in ogni luogo e in ogni contesto, non è questione di solidarietà. È un tema scientifico.
Fonte: https://www.terredifrontiera.info/intervista-aldo-morrone/