La questione del colonialismo e dei diritti dei Popoli Indigeni è antica come e più di Cristoforo Colombo, e mette sui due piatti della bilancia, come in molte questioni di attualità in altre parti del nostro Pianeta, i vecchi poteri occidentali e il resto del mondo.
I Nativi del Nord America sono tra i popoli più in vista in queste contrapposizioni e lotte che vanno avanti da oltre cinquecento anni. Il motivo risiede principalmente nel fatto che fin dall’inizio le “nuove colonie”, in particolare gli Stati Uniti, hanno voluto in qualche modo sdoganarsi dall’Europa per dimostrare che “loro” sapevano governare meglio, in virtù di una Costituzione democratica, e quindi hanno sempre permeato di pernicioso buonismo il loro trattamento nei confronti dei Nativi Americani.
Questo ha permesso che, “per il loro bene”, i Nativi del Nord America abbiano subìto dei trattamenti assurdamente crudeli, dall’apartheid delle riserve alle scuole residenziali, dal genocidio culturale allo sterminio. Uno stillicidio di esperimenti legislativi e amministrativi che avrebbe sfiancato qualunque popolo; loro sono, invece, sopravvissuti. Il fine ultimo è sempre stato, ovviamente, impadronirsi delle terre degli indigeni e delle loro risorse e, possibilmente, annientarli senza, però, apparire carnefici. Negli Stati Uniti e nel vicino Canada – governo più giovane come costituzione e autonomo dall’Inghilterra solo a partire dal 1931 – i Nativi sono stati soggetti ad un incredibile e vergognoso (se si fosse in grado di provare vergogna) arrembaggio ai loro diritti umani: eclatante il fatto che la loro cultura e identità dovessero essere cancellate per renderli “civili come l’uomo bianco”, ma è ancor più eclatante che la faccenda stia ancora andando avanti.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni
Fino a qualche tempo fa, le Nazioni Unite erano considerate una organizzazione mondiale importante e rispettata. Ma ormai viene usata dai governi, e in particolare dall’Occidente, per contraddire tutti i principi per cui era stata costituita. Il diritto internazionale sembra andato in frantumi, la missione di garantire la pace è un alibi opportunista, e ora anche la assistenza umanitaria, addirittura, sembra – solo ad alcuni – un impiccio inutile. La figura del Segretario delle Nazioni Unite è, anch’essa, soggetta a critiche doppiogiochiste.
Proprio nell’ambito delle Nazioni Unite è stata redatta, e sottoscritta da molti Paesi, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni, nel 2007. Un documento importante per salvaguardare quegli innumerevoli popoli indigeni che si sono trovati invasi nelle loro terre da potenze occidentali e privati di tutto. All’epoca non fu approvato proprio dai Paesi fondati sulla colonializzazione: Canada, Australia, Stati Uniti e Nuova Zelanda. Questo importante documento fu redatto e completato, nella sua bozza originale, nel 1993, da leader indigeni, che la approvarono nel 1994 e puntarono a terminarla entro il 2004. “Ma, in quel periodo, le pressioni di alcuni Stati diedero il via alla negoziazione di quella che divenne una versione diluita che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò nel 2007”, ha dichiarato alla CBC Charmaine White Face, portavoce del 1894 Sioux Nation Treaty Council in South Dakota. Sono stati infatti pubblicati da poco tempo i documenti di gabinetto australiani che hanno mostrato che il Canada ha guidato gli sforzi per indebolire la bozza originale della Dichiarazione sui diritti dei Popoli Indigeni alle Nazioni Unite, elaborando segretamente un sostituto favorevole al Canada, insieme all’Australia, nel 2002 e nel 2003. Charmaine White Face sostiene che le Nazioni Unite abbiano tradito le nazioni indigene indebolendo la bozza originale: “Sapevamo già dal 1994 che gli Stati colonizzatori di lingua inglese ci avrebbero provato. Non vogliono riconoscerci come nazioni con trattati internazionali legittimi”.
Il grido di allarme di Pam Palmater, avvocato Mi’kmaw e docente di governance indigena presso la Toronto Metropolitan University, si riferisce, però, ai giorni nostri. Secondo lei, il Canada continua a violare la Dichiarazione sui diritti dei Popoli Indigeni sul campo. “Si vede ancora imporre che gli oleodotti o le miniere si collochino sui territori indigeni. Si vede ancora inviare sulle nostre terre la RCMP (Royal Canadian Mounted Police, la Polizia Reale Canadese a cavallo)”, ha detto.
Il clamoroso tentativo di “colpo di spugna” del White Paper canadese
Nonostante l’attuale governo Trudeau stia provando a barcamenarsi e ad alleviarsi la coscienza tra le ingiustizie che affliggono le First Nations (i Popoli Indigeni del Canada, insieme a Métis e Inuit), non ultimo lo scandalo delle tombe senza nome delle scuole residenziali, c’è, però, un “illustre” precedente che va menzionato nel curriculum del Canada, oltre ad altri casi che abbiamo visto nei miei articoli (ad esempio “La violenza della polizia canadese verso i Nativi: nove morti nell’ultimo mese” e “Esperimenti medici segreti sui Nativi in Canada: una causa per dimostrare che succede ancora oggi”).
Il White Paper del 1969 (ufficialmente “Dichiarazione del governo canadese sulla politica indiana”) è una proposta di documento politico presentata dal governo del Canada in relazione alle First Nations. Il Primo Ministro Pierre Trudeau e il suo Ministro degli Affari Indiani, Jean Chrétien, pubblicarono il documento nel 1969. Il White Paper propose di abolire tutti i documenti legali esistenti in precedenza, tra cui (ma non solo) l’Indian Act, e di abolire tutti i trattati esistenti in Canada, che costituivano la Canadian Aboriginal Law. La proposta proponeva di assimilare le First Nations come un gruppo etnico uguale agli altri cittadini canadesi. Il White Paper è stato accolto da critiche e attivismo diffusi, tanto che la proposta è stata ritirata nel 1970. Esso proponeva una legislazione per eliminare lo status di indiano. Agli indigeni sarebbero stati garantiti tutti i diritti come cittadini, invece di essere assistiti dallo Stato. I popoli delle First Nations sarebbero stati inseriti nelle responsabilità del governo provinciale come cittadini canadesi e lo status di riserva sarebbe stato eliminato; le leggi sulla proprietà privata sarebbero state imposte alle comunità indigene. Qualsiasi programma speciale concesso alle popolazioni delle First Nations in base alla legislazione precedente sarebbe terminato. Il governo riteneva che tali programmi speciali avessero lo scopo di discriminare i popoli indiani dagli altri cittadini canadesi. Quindi, abolire le riserve e cancellare trattati e benefici di risarcimento sarebbe stato (ovviamente!) un gesto di bontà verso i Nativi.
Un po’ di storia
Dopo aver combattuto nella prima e nella seconda guerra mondiale per conto del Regno Unito, le popolazioni delle First Nations erano tornate in patria motivate a migliorare il loro status e le loro condizioni di vita in Canada. Nel 1945, il governo abolì il sistema dei pass, che per 60 anni aveva limitato gli Indiani nelle riserve. I Nativi, infatti, potevano uscire solo con un lasciapassare rilasciato da un agente indiano. Con una maggiore libertà di movimento, si ritenne che gli Indiani potessero essere maggiormente coinvolti nella società canadese. Nel 1946 il Parlamento creò una Commissione Speciale Congiunta che, con l’aiuto del Senato e della Camera dei Comuni, cercò di valutare gli effetti dell’Indian Act del 1876 (su cui non ci soffermiamo in questa sede). Nel 1959, a chi aveva lo status di Indiano fu concesso sia il diritto di voto alle elezioni canadesi e sia la possibilità di ricoprire cariche. (Gli Indiani che avevano già buttato alle ortiche il loro status e la loro identità avevano il diritto di voto dal 1876). Alla fine degli anni ’50, l’attivismo continuò a crescere nelle riserve; negli anni ’60, era sorto un diffuso movimento per i diritti civili. Nel 1963, il giornalista Peter Gzowski pubblicò l’articolo “Our Alabama” su Maclean’s, in cui analizzava l’omicidio di Allan Thomas (Saulteaux) avvenuto l’11 maggio 1963 da parte di nove uomini bianchi a Saskatchewan.
L’autore riferì che l’omicidio sembrava essere stato accettato con disinvoltura dalla popolazione bianca locale; a Gzowski fu detto che Thomas era “solo un indiano”. Alla fine degli anni ’60, ispirato dal movimento Black Power negli Stati Uniti, era nato in Canada il movimento Red Power. La militanza di Malcolm X a favore dell’Orgoglio Nero, contro il separatismo razziale e contro l’uso della violenza lo resero famoso, e la volontà di usare la violenza lo resero un eroe per il nascente movimento canadese del “Red Power”.
Gli attivisti canadesi notarono gli abusi subiti dai popoli delle First Nations e le condizioni deplorevoli in cui molti erano costretti a vivere. Nel 1963 il governo federale incaricò l’antropologo Harry Hawthorn di esaminare le condizioni sociali delle First Nations in Canada. Nel 1966 egli pubblicò il rapporto “A Survey of the Contemporary Indians of Canada”. Concluse che gli indigeni canadesi erano il gruppo più emarginato e svantaggiato tra i cittadini canadesi. Li descrisse come “cittadini meno”, attribuendo queste condizioni a anni di politiche governative sbagliate, in particolare il sistema delle scuole residenziali indiane, che non voleva fornire agli studenti le competenze necessarie per avere successo nella vita quotidiana. Hawthorne raccomandò che tutti i programmi di assimilazione forzata, come le scuole residenziali, fossero aboliti e di considerare i popoli indigeni come “cittadini più” e che avessero a disposizione opportunità e risorse per l’autodeterminazione.
Nel 1968 i liberali, sotto il loro nuovo leader Pierre Trudeau (padre di Justin), vinsero le elezioni con lo slogan “Società giusta”. Alla fine del 1968, nell’ambito della “Società giusta”, Jean Chrétien, il Ministro degli Affari Indiani, si impegnò a modificare la Legge Indiana. Il governo federale consultò le comunità indigene di tutto il Canada per cercare di modificare l’Indian Act. Nel 1969 fu trasmesso un documentario della CBC Television sulla vita nelle riserve del Saskatchewan settentrionale. Il documentario si concentrava su diversi omicidi irrisolti di indiani e métis e suggeriva che fossero stati uccisi da bianchi. Il presentatore del documentario descrisse le riserve del Saskatchewan settentrionale come il “Mississippi del Canada”, riferendosi a uno stato povero del profondo Sud degli Stati Uniti. Nel maggio del 1969, il governo organizzò una riunione dei leader regionali indigeni di tutta la nazione a Ottawa. Ascoltò le loro preoccupazioni in merito ai loro diritti e ai trattati, al titolo di proprietà della terra, all’autodeterminazione, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Dopo le consultazioni, Chrétien presentò il White Paper del governo alla Camera dei Comuni il 25 giugno 1969. La filosofia di Trudeau tendeva a favorire i diritti individuali rispetto a quelli di gruppo. Trudeau aveva messo in discussione l’Indian Act e ne aveva proposto l’abolizione, ritenendo che i pochi diritti che ne venivano fossero discriminanti (!!).
Quando presentarono il White Paper nel 1969, Trudeau e Chrétien lo proposero come un mezzo definitivo per affrontare le questioni relative alle First Nations. Il documento proponeva di eliminare lo status di indiano e che in questo modo i Nativi sarebbero stati uguali agli altri canadesi.
Il White Paper proponeva (ovviamente!) di eliminare tutti i programmi speciali per le popolazioni indigene. La visione di Trudeau di una società giusta era quella in cui tutte le leggi discriminatorie venissero abrogate. Il documento affermava che l’eliminazione dello status di indiano avrebbe “permesso al popolo indiano di essere libero di sviluppare le culture indiane in un ambiente di uguaglianza legale, sociale ed economica con gli altri canadesi”. Tra le disposizioni vi era anche l’abolizione del Dipartimento degli Affari Indiani entro cinque anni, l’abolizione del sistema delle riserve, e la conversione dei terreni delle riserve in proprietà privata, che potevano essere venduti. Doveva essere istituito un fondo di 50 milioni di dollari per lo sviluppo economico per compensare l’interruzione dei trattati e dell’Indian Act (molto di più è in ballo oggi, solo per i risarcimenti degli abusi nelle scuole residenziali).
Il White Paper affermava che queste azioni avrebbero ridotto i costi associati all’amministrazione degli affari indiani da parte del governo federale e alle responsabilità derivanti dai trattati esistenti. Le popolazioni indigene e non indigene reagirono rapidamente con una forte opposizione. Molti ritennero che, piuttosto che riconoscere i torti e le colpe storiche, il governo canadese stesse cercando di assolvere se stesso dalle proprie colpe. Il documento non rispettava nessuna delle promesse fatte alle popolazioni indigene dal governo canadese di risarcire le ingiustizie subite a causa delle politiche e delle azioni del governo. Lo Stato canadese avrebbe cambiato lo status dei Nativi senza che gli venisse concesso alcun contributo.
L’invito di Chrétien ai leader delle Prime Nazioni a Ottawa con proposte che erano l’opposto di ciò che volevano, fu visto come un tradimento. Il White Paper fu visto come un documento arrogante, in cui lo Stato dichiarava di sapere meglio cosa fosse bene per i Nativi di quanto lo sapessero loro stessi. Inoltre, dava un riconoscimento molto più limitato alle rivendicazioni territoriali delle First Nations e lasciava intendere che non sarebbero state più ammesse rivendicazioni territoriali. Il Libro Bianco fu considerato provocatorio e visto come l’ultimo di una serie di tentativi di assimilazione culturale.
Lo studioso Gordon Gibson ha osservato che molti Indiani si erano abituati al sistema delle riserve e la proposta di abolizione avrebbe significato un ennesimo totale cambiamento nel loro stile di vita.
Chrétien si scontrò apertamente con gli attivisti indiani. Una donna delle First Nations gli chiese: “Quando mai abbiamo perso la nostra identità?” e lui rispose: “Quando avete firmato i trattati”, il che provocò fischi e insulti. Un’altra donna della riserva Haudenosaunnee (Irochesi) di Brantford chiese a Chrétien: “Come puoi venire qui e chiederci di diventare cittadini, quando noi eravamo qui molto prima di te?”.
Harold Cardinal
Un critico di spicco del White Paper è stato Harold Cardinal, un leader Cree dell’Associazione Indiana dell’Alberta, che lo ha definito un “genocidio culturale”. Nel suo bestseller del 1969, “The Unjust”, lo definì come “un programma di sterminio attraverso l’assimilazione”. Il titolo del libro di Cardinal, con la sua inversione dello slogan di Trudeau sulla “società giusta”, era uno dei tanti modi in cui Cardinal utilizzava gli espedienti retorici per far valere le sue ragioni. Cardinal scrisse che i Cree, come lui, volevano rimanere “una tessera rossa nel mosaico canadese” e che le First Nations erano ugualmente contrarie a “un Libro Bianco per i bianchi creato dall’elefante bianco”. Aggiungeva che lo slogan americano “l’unico indiano buono è un indiano morto” era stato cambiato in Canada in “l’unico indiano buono è un non-indiano”. Cardinal, inoltre, ridicolizzò l’affermazione secondo cui Trudeau e Chrétien avrebbero ‘condotto gli indiani alla terra promessa’ e insistette sul fatto che i popoli delle First nations dovevano determinare il proprio destino senza che il governo dicesse loro cosa fare. Egli considerava il White Paper come un “passaggio di responsabilità” alle province e impugnò il rifiuto con il “Citizens Plus nel 1970”. Il documento, popolarmente conosciuto come il “Red Paper” (Libro Rosso contrapposto al Libro Bianco), incarnava la visione nazionale degli aborigeni con la dichiarazione: “Non c’è niente di più importante dei nostri trattati, delle nostre terre e del benessere delle nostre generazioni future”.
Proteste
La controversia servì a mobilitare i più recenti movimenti per i diritti indigeni. Tra i gruppi c’erano 33 organizzazioni provinciali e 4 associazioni indigene nazionali. L’opposizione al White Paper ha dato vita al primo movimento nazionale delle First Nations che abbracciava l’intero paese. Nel novembre del 1969, Rose Charlie dell’Associazione delle Casalinghe Indiane, Philip Paul della Southern Vancouver Island Tribal Federation e Don Moses della North American Indian Brotherhood invitarono i leader delle bande del British Columbia a unirsi a loro. Si riunirono a Kamloops: i rappresentanti di 140 bande erano presenti e formarono l’Unione dei Capi Indiani della Columbia Britannica (UBCIC). Il Libro Bianco era considerato particolarmente provocatorio nel British Columbia, poiché la Corona inglese non aveva mai firmato trattati con i popoli indiani della British Columbia sulla cessazione delle terre. Il White Paper fu considerato un tentativo del governo Trudeau di evitare di affrontare la questione. Le First Nations della Columbia Britannica sostengono che, poiché non sono mai stati firmati trattati con loro, sono ancora i legittimi proprietari di tutte le terre del British Columbia e la Corona deve restituire loro la terra o risarcirli al pieno valore di mercato della terra: ciò potrebbe costare alla Corona centinaia di miliardi di dollari. Nel 1970, l’UBCIC pubblicò “A Declaration of Indian Rights: The B.C. Indian Position Paper” (Il documento di posizione degli Indiani del B.C.), o il “Brown Paper”, il Libro Marrone, che respingeva il Libro Bianco e affermava la continua esistenza del diritto alla terra aborigeno.
Furono organizzate molte proteste e marce pubbliche per opporsi al Libro Bianco e chiedere che venissero intraprese azioni più appropriate per affrontare i problemi delle Prime Nazioni.
Nel 1970, Trudeau ritirò il Libro Bianco e disse, in una conferenza stampa: “Li terremo nel ghetto finché lo vorranno”. Sorprendendo molti, alla fine Trudeau riconobbe il Libro Bianco come un fallimento.
Nonostante l’abbandono, molti ritengono che l’intento del Libro Bianco e i valori della sua legislazione continuino a essere mantenuti dal governo canadese e che l’assimilazione rimanga l’obiettivo a lungo termine.
Da quando è stato abbandonato il Libro Bianco, l’interesse degli indigeni per la politica è aumentato e così è aumentata anche la consapevolezza pubblica dei problemi e degli obiettivi degli indigeni. Con l’aumento dell’attività politica nella comunità indigena, sono emersi leader nativi esperti e competenti.
British Columbia e conseguenze
Nel 1973, la Corte Suprema del Canada con la sentenza Calder v. British Columbia concluse il dibattito riconoscendo il titolo di proprietà degli indigeni nella legge canadese e concordando sul fatto che il titolo di proprietà degli indigeni sulle rivendicazioni fondiarie esisteva da molto prima della colonizzazione europea in Canada. Il caso fu portato in tribunale dal capo Nisga’a Frank Calder. Il suo scopo era quello di verificare l’esistenza di un titolo di proprietà terriera indigeno, che era stato rivendicato su terre che erano state precedentemente occupate dal popolo Nisga’a della Columbia Britannica. La causa fu persa, ma la sentenza finale della Corte Suprema ha stabilito per la prima volta che il titolo di proprietà terriera indigena ha un posto nel diritto canadese. Il caso è servito come base per la creazione del Trattato Nisga’a nel 2000, che ha stabilito il diritto di proprietà del popolo Nisga’a di autogovernarsi nel suo territorio tradizionale.
Nel 1982, i diritti degli indigeni e dei trattati sono stati riconosciuti nella Sezione 35 del Constitution Act, diventando parte della Costituzione canadese. La Sezione 35 protegge i diritti dei trattati indigeni esistenti e lo “status indiano” include tutti i popoli delle Prime Nazioni, compresi gli Inuit e i Métis. L’auto-amministrazione era già in atto dagli anni ’60, ma continuavano a esserci disordini riguardo alle modalità di delega dei poteri amministrativi. La risposta a questi disordini fu un rapporto pubblicato nel 1983 con raccomandazioni affinché alle comunità indigene fosse concessa l’opportunità di creare le proprie nuove forme di governo e di avere l’opportunità di autogovernarsi. I governi indigeni avrebbero funzionato al di fuori dei governi federali e provinciali. A gennaio 2015, sono stati messi in atto tre accordi di autogoverno e 26 rivendicazioni territoriali sono state risolte dal governo federale. Tuttavia, c’è ancora molta ambiguità in questo ambito e per i leader indigeni è una questione di continua controversia.
Raffaella Milandri
Scrittrice e giornalista, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia.
Membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi. Attualmente conduce un programma radiofonico sulla musica nativa americana, “Nativi Americani ieri e oggi” e cura la riubrica “Nativi” su L’AntiDiplomatico.
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