A sei o sette anni ero innamorata di “Hallo Dolly” e “When The Saints Go Marching In”, i celebri brani portati alla notorietà da Louis Armstrong. Vedevo che anche mio padre sorrideva se Armstrong appariva in tv, benché né io né lui sapessimo nulla di jazz. C’era infatti qualcosa nei pezzi del trombettista che era impossibile non amare, ma a cui era altrettanto difficile dare un nome. Questo accadeva per quasi tutti i pezzi che decideva di fare propri ed era sempre questo a garantirgli la celebrità planetaria di cui godeva, una fama che gli imponeva di essere presente ovunque, anche in luoghi molto lontani dal mondo del jazz dal quale proveniva ed a cui è sempre appartenuto.
La mia passione per Armstrong svanì tuttavia completamente a partire dagli anni dell’ adolescenza: lo vedevo esibirsi a Sanremo in vecchi filmati, sorridente e mi domandavo cosa avesse avuto da ridere tanto un artista di colore mentre si esibiva per i bianchi, quella “razza padrona” che era stata capace di rendere schiava la sua gente, strappandola alla propria terra. Non condannavo ovviamente la scelta di esibirsi, ma quella di farlo senza smettere nemmeno per un minuto di sorridere, un eccesso che mi pareva tipico di chi sente di dover dare qualcosa in più perché esiste dentro di sé un conto che è abituato a regolare in quel modo solamente. Contestavo questo modo, così come in certi film non sopportavo che i neri non figurassero mai come protagonisti e le poche volte in cui lo facevano accadeva sempre entro un cliché non diverso tutto sommato da quello proposto da Louis Armstrong con i suoi sorrisi. I neri, per quel che potevo vedere tramite il cinema o la televisione, avevano un comportamento sempre differente da quello tenuto negli stessi contesti dai bianchi. Tempo dopo avrei scoperto che l’atteggiamento che da ragazza avvertivo come insopportabile da molti era chiamato “ziotomismo”. Lo ziotomismo consisteva dunque nel tenere da parte dei neri il comportamento che essi stessi ritenevano gradito ai bianchi, anzi nel muoversi esclusivamente all’interno di quei modi scelti per loro dai bianchi nella loro veste di padroni.
Negli stessi anni avrei anche appreso che Armstrong era accusato di essere uno ziotomista e che a giudicarlo tale erano spesso proprio gli uomini di colore.
Eppure era noto il suo aperto e concreto sostegno alla battaglia di Martin Luther King e le sue prese di posizione antigovernative contro le politiche dell’epoca, che contribuivano a rendere i neri americani di serie B. Altrettanto noti erano sul piano musicale peraltro, i giudizi espressi nei suoi confronti da artisti del calibro di Miles Davis, per il quale nessuno sarebbe stato mai capace di suonare la tromba come Armstrong, un maestro assoluto dunque dello strumento. Di tono non dissimile erano le valutazioni di altri eccezionali musicisti che hanno fatto la storia del jazz, come Duke Ellington.
Quanto invece alla schizofrenia che ha accompagnato il mio rapporto con Armstrong e la sua musica, per fortuna appartiene al passato, soppiantata dalla consapevolezza di dover respingere ogni considerazione astratta, poiché guarda alle cose come dotate di una sola dimensione.
Satchmo era nipote di schiavi e conosceva bene il razzismo e la condizione di emarginazione e povertà che comporta, per averla vissuta in prima persona. Sua madre, abbandonata dal padre del musicista, era costretta a prostituirsi per far sopravvivere i suoi figli e la stessa vita giovanile del jazzista non è da considerarsi un esempio, sebbene quando si parla della vita dei neri in America, si dovrebbe tener conto del fatto che la possibilità di scegliere per sé la vita migliore era ed è sottoposta alle pesanti limitazioni determinate dal razzismo ancora e sempre imperante. Armstrong ha usato il linguaggio dell’epoca alla quale è appartenuto e sarebbe irragionevole (anche se astrattamente possibile) aspettarsi che ne usasse uno nuovo, diverso e più giusto o che addirittura ne inventasse uno. Più volte egli stesso ha dichiarato di fare solo ciò che piaceva al pubblico.
Talvolta bisognerebbe fare i conti con una dimensione umana che accompagna sempre anche figure di eccezionale valore, che finiamo col considerare degli eroi al di sopra del tempo, dimenticando che il più delle volte i miti degli eroi sono creati a fini propagandistici e che abitano le pagine dei libri molto di più che le strade delle nostre città. L’eredità di Satchmo attiene al suo contributo all’evoluzione del linguaggio del jazz e deve essere valutata e giustificata in sé come fatto di straordinario valore, a prescindere dalle scelte che come essere umano è stato in grado di fare. Ovviamente ciò vale se si è appassionati di musica e ad essa in qualche modo ci si dedichi, non se si ambisce a valutazioni delle condotte umane, nelle quali anche pretenziosi istituti come il Sant’ Uffizio hanno dimostrato di saper solo fallire.
Rosamaria Fumarola