Molti amici mi hanno scritto in privato per chiedermi un commento sulla nuova riforma del lavoro che in Grecia ha aumentato a 10 ore la giornata lavorativa.

Che volete che vi dica… al netto del sorriso che mi strappano i compagni ‘de sinistra’ che manco stavolta riescono a unire i puntini, questa storia è una semplice, didascalica rappresentazione in purezza di cosa sia effettivamente il modello rappresentato da euro e Unione europea. Un luogo di finto progresso in cui le lancette dei diritti (quelli veri) corrono all’indietro.

Perché, vedete, in un Paese con una disoccupazione dilagante (18%, più del doppio rispetto al 2008) e in cui i giovani senza lavoro sono il 33% del totale (percentuale che non tiene conto del mezzo milione di laureati emigrati in pochi anni) proporre un provvedimento come le 10 ore è semplicemente un atto criminale. Anziché creare le condizioni per l’aumento diffuso dell’occupazione, a quei pochi che ancora lavorano, viene imposto per legge l’aumento di giornata lavorativa e straordinari, l’abolizione della settimana di cinque giorni e la compressione del diritto di sciopero. Certo il monte ore complessivo settimanale non aumenta, ma leggere commenti come quello di Facta.news in cui si minimizza dicendo che il lavoratore “potrà scegliere” se e quanto lavorare strappa un sorriso davvero amaro.

Perché la riforma si inserisce perfettamente in un quadro già rodato (e fortemente precarizzato) di aumento della flessibilità. La parola magica grazie alla quale in meno di un decennio è stato possibile quadruplicare il numero di persone con una retribuzione massima di 250 €, comprimere drasticamente l’indennità di disoccupazione. E aumentare notevolmente la percentuale di lavoratori (pubblici e privati) con stipendi inferiori a 1.000€ che è passata dal 20% del 2009 al 73% nel 2018.

In buona sostanza, quindi, le 10 ore arrivano al culmine di un lungo e sanguinario processo di riforme che – grazie alla crisi e alla conseguente austerità – si sono rivelate utilissime a disciplinare violentemente il mercato del lavoro. Creando una massa enorme di disperati la cui unica possibilità di sopravvivenza è accettare la condizione di schiavitù.

Ma la cosa più triste e sconcertante è stato assistere, durante tutto l’iter parlamentare di approvazione della legge, alla reazione apatica della popolazione. Le folle oceaniche scese in strada anni fa per opporsi alla macelleria sociale della Troika sono un lontano ricordo. Le manifestazioni sindacali contrarie al provvedimento sono state molto meno partecipate rispetto al passato. Segno che, dopo anni di continue vessazioni, il popolo tradito ha smesso di lottare.

Ed è questo, forse, l’aspetto più inquietante di tutta la storia.

Assistere all’annichilimento di un’intera popolazione, fiera e combattiva, che – dopo un decennio di lotte assolutamente inefficaci, in cui è stata privata dei più elementari diritti costituzionali – piegata a suon di bastonate finisce per accettare come ineluttabile un presente che fa comodo sempre e soltanto agli interessi dei pochi e soliti noti. Quelle élite europee che in nome di una presunta modernità stanno lentamente restaurando un modello da ancien régime.

Ragion per cui chi crede che il fondo sia stato già toccato da tempo sbaglia di grosso. Dopo l’impoverimento, la disperazione e la rabbia non c’è il baratro. Ma un lungo e tortuoso sentiero lastricato di apatia e depressione che, lentamente, porta alla morte per agonia. Imboccato quel tunnel la via d’uscita si fa sempre più irraggiungibile.

Ecco perché diventa sempre più urgente tornare indietro e cambiare strada, prima che sia troppo tardi. Una volta fuori però ricordiamoci dei fratelli greci e costruiamo insieme a loro una strada completamente nuova.

Antonio Di Siena

Avvocato, blogger e autore di “Memorandum. Una moderna tragedia greca” (Gruppo L.A.D.)

fonte: l’antidiplomatico – https://www.lantidiplomatico.it

Di BasNews

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