Una Messa per Carmine
di Graziella Placido
Pasquale Tucciariello, ingegno multiforme e dalla intensa e varia attività, giornalista, professore, scrittore, storico, continua instancabile a dare un pregevole contributo alla vita culturale della nostra cittadina. Delusioni, molte. Successi, pochi. Ma lui non demorde. “Fluctuat nec mergitur” dicono i latini. Naviga tra le onde ma non affonda. Da qualche anno, per fuggire le asprezze del vivere, trascorre gran parte della giornata nel suo “buen retiro” in contrada Boccadoro di Atella, la Valle di Ferrelle, un terreno della nonna paterna, una casetta, il suo pensatoio. Probabilmente lì ha maturato la sua ultima fatica: una raccolta di racconti prediligendo una forma narrativa, il racconto appunto, che ha incontrato subito il mio favore. Anche per la brevità e lo stile linguistico snello, senza fronzoli, semplice e pur curato nella sua levità. Dovrebbe interessare soprattutto i giovani lettori che, avvezzi al digitale e inconsapevoli delle conseguenze alienanti dell’abuso di tali mezzi comunicativi, scarseggiano. A nulla vale la pubblicità “più libri, più liberi”.
“Una messa per Carmine” (Crocco) fa parte della raccolta Racconti. Il brigante – non chiamatelo brigante avverte Tucciariello – durante la guerra del brigantaggio che si combatté in Italia meridionale per più di quattro anni a partire dal 1860, a capo di circa 2.000 uomini, ha inferto duri colpi a metà dell’esercito piemontese dislocato nel sud per reprimere con ferocia il fenomeno. Non è il caso di soffermarsi su un fenomeno alquanto complesso come il brigantaggio che ebbe varie fasi, né sulle tesi degli storici che si dividono tra coloro che lo ritengono un fenomeno di delinquenza e di anarchia e chi lo ritiene un fenomeno sociale che coinvolse una massa di contadini per lungo tempo sfruttati ed affamati da una incurante classe politica. Vale al riguardo la testimonianza del Nisco – un agente inviato nel Mezzogiorno con incarichi esplorativi – che così scrive a Cavour nel dicembre 1860 “La miseria è spaventevole; in molti luoghi i contadini hanno gridato Francesco II e, arrestati, dissero che avrebbero gridato anche il diavolo purché gli desse pane“. Non lotta politica, dunque, quella di Crocco e dei suoi contadini di cui – il ribelle – era diventato il simbolo delle loro aspirazioni frustate e il vendicatore dei torti da loro subiti.
Il racconto: “Una messa per Carmine”. Mentre lo leggevo mi domandavo se la vena storica di Tucciariello sovrasta quella narrativa o viceversa. Tucciariello è prevalentemente uno scrittore non perché non studia con rigore i documenti storici (ha insegnato storia e filosofia al liceo classico) ma la sua profonda sensibilità gli impedisce di mantenersi estraneo ai personaggi di cui sa descrivere l’aspetto umano in tutti i suoi risvolti e la gamma dei loro sentimenti.
A Tucciariello non interessa il generale Crocco, le sue notevoli doti di strategia militare ma la sua vicenda umana. Il ribelle non è più solo l’assassino, il ladro, l’uomo della rapina ma piuttosto il combattente che ha coraggio e forza sufficiente per ottenere per sé e per gli altri quella giustizia che la legge non riesce a dare.
Sin dall’esordio il coprotagonista del racconto, Carmine Labella (nonno dell’autore), riferendosi a Crocco, dice ”era un uomo”. E ancora quando il ribelle rivendica l’onore della sorella leggiamo era un uomo, Carmine”. Certo l’autore mette in conto i delitti di Crocco verso il quale non si mostra assolutorio (i piemontesi hanno fatto di peggio, e li chiamiamo patrioti). Ma soprusi, violenze, sopraffazioni, ingiustizie subite, la follia della madre, i tradimenti: quanta tolleranza è contenibile in un essere umano in carne ed ossa? E per di più in un giovane che, per età e condizioni, non può accettare l’immutabilità della vita?
La notizia della morte di Borjes – il valoroso comandante inviato nel sud dai Borboni di Spagna ad unirsi alle bande di Crocco per proclamare la restaurazione a Napoli, accordo poi fallito – turba il ribelle. Così Tucciariello “…. senza aggiungere parola (Crocco) si era allontanato tra i boschi e lì rimasto solitario per qualche giorno, un modo forse di vivere la scomparsa di una persona , addirittura un lutto, riconoscere un ruolo, avere rispetto, pensarlo uomo coraggioso, soldato leale. E tale era anche Carmine…Più spontaneo (di Borjes), più aggressivo, più audace, più astuto, più sprezzante della vita, più vendicativo, senza un progetto definito, senza una politica, ……senza un futuro”. E Crocco ne è cosciente. Fallita la presa di Potenza “il grande Crocco – continua Tucciariello – riunisce i suoi uomini come solo gli uomini grandi sanno fare. Ordinò di sciogliersi, di fuggire altrove, lontano, a Napoli, in Spagna, in America. Li salutò uno per uno, stringendoli al petto uno per uno. Disse: ci rivedremo tutti insieme davanti alla Madonna del Carmine per chiedere perdono delle nostre colpe.”
Ecco il filo conduttore che percorre tutto il racconto: l’umanità dell’uomo Crocco. “Umano troppo umano” direbbe Nietzsche. E Tucciariello scruta, scandaglia in profondità l’animo del suo personaggio e, come il palombaro, riporta alla luce la perla, quel pizzico di divino – oso dire – che c’è nel cantuccio di ognuno di noi. Anche nel più feroce assassino. Per questo vale bene una Messa per Carmine. Per questo “non chiamatelo brigante, ma ribelle” ripete lo scrittore e lo storico.
Con questo racconto Tucciariello – a mio avviso – opera una riconciliazione tra il ribelle, l’uomo con tutto il suo peso di sofferenza, e la memoria carica di storia e di sconvolgimenti. Memoria ancora oggi rimossa dalla coscienza di molti per essere, il personaggio e lo stesso fenomeno del brigantaggio, ritenuti una vergogna.
Non mancano nel racconto, poi, altri elementi degni di segnalazione: il senso del mistero che emana un certo fascino. Quello no. Non va investigato altrimenti non è più mistero. E i segreti. “Per gli uomini veri i segreti sono segreti da custodire fino alla tomba”. E’ il fascino del non detto che è meglio custodire nello scrigno del nostro cuore. Anche Oriana Fallaci, anche lei indomita e ribelle, appunto come Pasquale, in “Penelope alla guerra”, sua prima opera narrativa, nel dialogo fra Francesco e Giovanna – due ex amanti – fa dire a Francesco: “Ah, la tua maledetta ossessione di voler chiarire ad ogni costo ogni cosa! La vita è già dura senza chiarezza: figuriamoci con la chiarezza”. E alla donna che intende impostare un rapporto chiaro basato sulla perfezione, l’uomo chiosa: “La perfezione non esiste Giovanna e quando esiste, è irritante.” Così la Fallaci. E noi, a proposito di Crocco, osserviamo: la santità non esiste. Non è nella natura umana. Perché quando è troppo è troppo. Perciò non chiamatelo brigante ma ribelle, ripete l’autore. E poi il vento.
Il racconto si conclude con l’immagine del vento. Un elemento che ricorre in altri racconti di Tucciariello: “quel venticello leggero leggero in Re minore che fischia accompagnando le parole, spingendole tra i boschi del Vulture e la Valle di Vitalba che fa compagnia al solitario Pasqualotto”. Il vento: metafora delle forze dello Spirito che non ci lasciano mai, che conservano e proteggono i nostri bellissimi luoghi e non li abbandonano. E le parole, spinte dal vento, raccontano la permanenza di questa spiritualità. Sono parole che esprimono l’anima lucana: un’anima presente che resiste, forte e fiera. Come le montagne nostre e le valli. In questo periodo di smarrimento identitario, di incertezze, Tucciariello, da appassionato rionerese e patella abbarbicata alla sua terra lucana, si rivolge non solo ai suoi lettori per rispondere all’uomo di oggi, carico di domande, con un sentimento di conciliazione, di comunità, di fiducia, di inclusione che solo rendono più umana l’umanità. A qualcosa serve un bel racconto.
Graziella Placido, Centro Studi Leone XIII.