In una recente intervista Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca, ha dichiarato che “il lessico della tradizione poetica italiana che si è conservato praticamente immutato da Dante e Petrarca fino a Leopardi, oggi è uscito dalla competenza passiva dei giovani”. In teoria dovrebbero impararlo a scuola. Ma a quanto pare a scuola non si leggono più i classici. E lo studio che oramai si basa quasi unicamente sul presente, trascura la letteratura del passato. Quindi, scelta empia e scellerata, si è voluto sacrificare Dante. Non si comprende bene a favore di chi e in ragione di cosa. Ma in realtà ciò non rileva nemmeno perché il fatto è già criminale di per sé. Il Professor D’Achille tocca un tasto dolente che rimanda alla grande crisi che affligge la scuola.
Un declino che incede inesorabile e che investe in primis gli studi classici, soppiantati dalla massiccia proliferazione di indirizzi tecnico-scientifici. Questa tendenza fu già individuata da Gramsci che nei Quaderni dal Carcere notava che una scuola di tal fatta si sarebbe rivelata inesorabilmente classista, perpetuando e accentuando le differenze di classe. Quale potrebbe essere infatti la sua aspirazione? Far si che un manovale diventi non un uomo colto ma un operaio qualificato? E contro questa tendenza esprimeva il suo biasimo: “Le scuole di tipo professionale preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata”. Ricordiamo che quando Gramsci scrisse i Quaderni il latino era ancora materia obbligatoria. E lo rimase sino all’approvazione nel 1962 della legge n.1859 all’interno della riforma voluta dal primo governo di centro-sinistra (DC e PSI) che stabiliva insieme all’introduzione della scuola media unica e obbligatoria sino ai 14 anni, l’abolizione del latino e l’introduzione di varie materie tecnico-scientifiche. Lo studio del latino avrebbe integrato quello dell’italiano a partire dalla seconda media e solo in terza sarebbe comparso come materia autonoma ma facoltativa. La legge suscitò aspre polemiche per anni prima di essere approvata. Per i socialisti il latino rappresentava il simbolo di un mondo conservatore da cui prendere le distanze, una zavorra che avrebbe impedito il progresso. Per Pietro Nenni era “la lingua dei signori”. Il Pci invece espresse voto contrario poiché l’obbligo scolastico a 14 anni avrebbe dovuto coincidere con la “formazione della mente” e non con l’introduzione di insegnamenti utilitaristici e di immediata spendibilità come quelli tecno-scientifici. Posizione questa sostenuta oltre che da Togliatti anche da Concetto Marchesi, il più raffinato latinista del panorama italiano, che a tal proposito definì il latino il più grande esercizio formativo che mai avrebbe dovuto soccombere alle ragioni del mercato. Le sue parole siano ancora oggi da monito: “Noi stiamo subendo l’abbaglio della tecnica e l’incanto del motore ma si tratta per l’appunto di un grosso abbaglio. Ho sentito dire che la scuola deve formare l’uomo moderno; io non so che cosa sia quest’uomo moderno. La scuola deve formare l’uomo capace di guardare dentro di sé e attorno a sé; a formare l’uomo moderno provvederanno i tempi in cui è nato. Ogni uomo è moderno nell’epoca in cui vive”.
A questa riforma ne seguirono altre. Quella del 1978, approvata a larga maggioranza con il plauso stavolta anche del PCI, avrebbe sancito “la lenta morte della riforma Gentile” come ebbe a dire il deputato comunista Marino Raicich. Per mezzo dell’ ’introduzione dell’educazione tecnologica si mirava a “un cambiamento dell’asse culturale”; e addirittura si intravedeva nella analisi logica “uno strumento tutt’altro che neutrale che privilegia i privilegiati”. “L’analisi logica è fascista” si direbbe oggi.
In realtà il latino da molti studiosi è definito “il codice genetico dell’ Occidente” poiché è la lingua in cui si struttura l’approccio al mondo e nella quale l’Occidente è stato immerso. L’italiano altro non è, per dirla un pò rozzamente, che il latino moderno. Solitamente a questo punto l’ignorante di turno chiede a cosa servirebbe studiare il latino, o il greco, dal momento che non hanno una utilità immediata e strumentale. Ma il fine degli
studi classici non è servire a qualcosa. Non c’è in essi un fine utilitaristico. Si coltivano ‘per rendere consapevolmente sé stessi’. Non si impara il latino e il greco per fare i camerieri, diceva Gramsci, né per soddisfare un bisogno pratico. Consentono di perseguire lo sviluppo interiore della personalità, coltivare la formazione del carattere attraverso l’assorbimento di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea. “L’ ideale umanistico era elemento fondante della cultura nazionale” perché lo studio del latino e del greco, unito allo studio delle rispettive letterature e della storia, costituiva un principio educativo in quanto l’ideale umanistico che si impersona in Atene e Roma, ispirava tutta la società. Persino la meccanicità dello studio grammaticale era ravvivata dalla prospettiva culturale e non era fine a sé stessa. “Il latino è difficile da apprendersi”, dice ancora Concetto Marchesi: “ma la difficoltà, la noia, la fatica sono alla base di ogni sentiero che porta verso l’alto.” Non possiamo infatti negare che nello studio ci sia anche e sempre una parte di sofferenza, di fatica e anche di noia, sebbene una certa pedagogia per troppi anni abbia tentato di rimuoverle. Ma i risultati li raccogliamo oggi. E sono desolanti. E’ audace da dire ma e’ vero che, con buona pace del mito del ’68, le nozioni hanno un ruolo chiave nella costruzione del sapere. Cosa sarebbe infatti un grecista o un latinista senza nozioni? Che le nozioni, apprese anche mnemonicamente (un paradigma lo si apprende proprio meccanicamente) vadano poi ricondotte a un contesto storico di riferimento e ravvivate da una prospettiva culturale, lo si dà per scontato
perché è uno studio intelligente quello che qui si rivendica e che purtroppo si è perso. E sarà il compito di ogni buon docente condurre verso questo cammino, lungo il quale non si trascurerà nemmeno di accogliere anche le debolezze e le fragilità degli allievi. Ma esulando per il momento dalla dimensione pedagogica, torniamo a dire che insieme al latino e al greco, il fulcro degli studi classici è costituito dallo studio della letteratura italiana, ormai trascurata, e dalla storia che soli restituiscono all’uomo coscienza della propria umanità. La storia in particolare fornisce una prospettiva temporale che rende comprensibili i cambiamenti e le proprie radici, permettendo di guardare al futuro. Rende possibile un confronto autentico con altre culture e segna la misura della propria identità, senza la quale questo confronto si muta in mera assimilazione acritica: quella che noi italiani subiamo da molti decenni e senza averne nessuna consapevolezza. Una vera e propria colonizzazione che è anche e soprattutto linguistica. Ad esempio tramite il continuo ricorso ad anglicismi oramai penetrati nel nucleo della nostra lingua e usati compulsivamente in luogo dei corrispettivi termini italiani anche quando non necessari. L’impoverimento lessicale che da tutto ciò consegue fa sì che i parlanti, e tra questi i ragazzi più di altri, si trovino disorientati e senza riferimenti in un orizzonte linguistico in cui la stella polare non è più Dante ma, se va bene, autori privi di qualsiasi caratura. E dove a prevalere sulla lingua è un codice linguistico privo di quella profondità propria delle lingue storiche.
Parallelamente a farsi largo a scuola e non solo, è una egemonia scientista-tecnocratica dettata sicuramente anche dall’esigenza di unificazione dei sistemi scolastici europei voluta dalla EU e pertanto ostile alle varie identità culturali nazionali. Questa deriva tecnocratica fa sì che la scuola, tramite un perpetuo progettare che è sicuramente assai proficuo dal punto di vista economico ma poco da quello culturale, sia oramai ridotta a mera erogazione di competenze volte a plasmare non più futuri cittadini ma soggetti che passivamente vengono “formati” in base al dettato dell’agenda politica. E quindi ora in funzione della questione climatica, ora dell’ educazione sentimentale, sessuale e delle differenze di genere, ora per preparare al mondo del lavoro. E’ doveroso ammettere che aver abbandonato lo studio del latino per far posto a educazione sentimentale et similia non è stato un investimento granché “fruttuoso”.
Per quanto infatti la riforma Gentile del 1923 che subentrò alla vecchia legge Casati, fosse sicuramente una riforma fortemente elitaria “con venature classiste” come osservava lo stesso Gramsci, riceveva però grande plauso da uomini come Piero Calamandrei e Giacomo Devoto che si riferivano ad essa come alla pagina più positiva e meno fascista del Regime. Ma le va inoltre riconosciuto indubbiamente il merito, e Gramsci stesso lo fa, di aver dato una istruzione di prim’ordine, sia pure per la parte più privilegiata della società, rivendicando la priorità della cultura, di aver messo al centro l’uomo e le humanae litterae. Gramsci e Gentile mantengono due prospettive irriducibili che però condividono l’importanza assoluta degli studi classici: la letteratura italiana, la storia e il greco e latino: “uno studio che istruendo educava”, come amava dire lo stesso Gramsci. Il liceo classico porta ancora lo stigma di essere una scuola classista nata dalla “Riforma più fascista” che in realtà di fascista aveva ben poco. Ma noi oggi paradossalmente abbiamo barattato il liceo classico della riforma Gentile con una scuola (falsamente) “democratica” nella quale tutti coloro che frequentano, proventienti da una scuola media azzoppata, e poi dispersi nelle varie scuole professionali o in licei che comunque forniscono una preparazione di scadentissima qualità, restano ignoranti. In realtà non proprio tutti perchè i più ricchi optano per costose scuole private, mentre la grande massa perde il suo tempo“democraticamente” tra un laboratorio, un progetto e i corsi di educazione sessuale.
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