“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione.
La mia richiesta è la seguente: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani.
I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”.
Tratto da “Les mémoires de la Shoah” di Anniek Cojean (“Le Monde”, 29 aprile 1995).
Questa struggente lettera è più che mai attuale, non soltanto perché oggi si celebra il Giorno della Memoria e si ricordano gli oltre sei milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento dalla follia nazista; ma ancora di più perché pochi giorni fa si è verificato un episodio sconcertante che ha avuto per protagonisti proprio degli studenti. E’ accaduto a Campiglia Marittima (Livorno) dove un dodicenne, che frequenta la seconda media «Carducci» a Venturina Terme, sarebbe stato insultato da due ragazzine quindicenni con frasi del tipo «ebreo di m…., devi morire nel forno» e poi sarebbe stato preso di mira con sputi, calci e botte sulla testa. «Tu devi stare zitto perché sei un ebreo». Questo è quanto denunciato direttamente dall’Amministrazione comunale sul proprio sito istituzionale. E non è purtroppo né il primo, né l’ultimo caso del genere.
Ormai da anni infatti si è perso il senso della memoria, al punto che l’antisemitismo è oggi sempre più vivo e lotta intorno a noi.
Sarà forse perché stanno scomparendo tutti i testimoni diretti della tragedia, quei pochi sopravvissuti che hanno avuto il privilegio di avercela fatta; sarà perché negli ultimi cinquant’anni è proliferata una certa letteratura negazionista che ha forgiato anche nuove formazioni che si richiamano espressamente al nazismo; sarà perché non si fa abbastanza per tenere vivo il ricordo della Shoah, ma sembra che, anno dopo anno, stia scemando sempre di più l’orrore per quanto avvenuto. Soprattutto le giovani generazioni sembrano incapaci spesso di immedesimarsi nel dramma vissuto da tanti loro coetanei dell’epoca, al punto quasi da rovesciare l’ordine delle cose; con il termine ebreo che, come nel caso di questi giorni, assume un connotato dispregiativo, una sorta di marchio di infamia, una nuova stella gialla. E quel che è peggio, sembra essersi persa anche la capacità di indignarsi, come se alla fine odiare gli ebrei sia un qualcosa di assolutamente normale, come se l’antisemitismo sia un po’ come un qualcosa con cui alla fine convivere, perché a conti fatti c’è sempre stato nella storia, e in fondo riguarda un segmento della popolazione.
Chi scrive ha sempre nutrito rispetto per le vittime della Shoah, ma il mio atteggiamento è cambiato e si è fatto ancora più partecipe della tragedia, dopo la visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove ho avvertito il gelo della morte che si percepisce attraversando i blocchi, fissando lo sguardo dei deportati stampati sulle foto, ma ancora di più osservando da dietro le vetrine gli oggetti personali e gli indumenti appartenuti alle vittime, per non parlare delle ciocche di capelli tagliate alle prigioniere e ammassate come montagne. Scene che non dimenticherò mai e che mi hanno segnato per il resto della vita. E francamente mi indigno, forse più di quanto facevo prima, ascoltanto chi minimizza o addirittura nega la realtà storica dell’olocausto..
La lettera pubblicata all’inizio ci fa capire che ricordare, tenere viva la memoria, è cosa ben diversa dall’educare. Gli scienziati che studiarono i sistemi più efficaci per realizzare la “soluzione finale” erano istruiti, laureati, possedevano ingegno, capacità, intelligenza e dei professori più grandi di loro li avevano ritenuti degni di servire la scienza. Ma loro l’hanno servita per assecondare progetti distruttivi e di sterminio.
Da qui quindi l’appello ad un’educazione che non sia soltanto mirata a creare nuovi geni (e la genialità non fa sempre rima con virtù) ma sappia affermare soprattutto valori umani. Perché la cosa più importante è “restare umani” sempre, in ogni circostanza e contingenza storica. Se si perde l’umanità, tutto il resto, l’educazione, la professionalità, la creatività, rischiano soltanto di creare nuovi mostri, perché essere intelligenti e geniali non è la stessa cosa che essere umani.
Sbagliato considerare il negazionismo soltanto come un prodotto dell’ignoranza, quando poi si scopre che il negazionista è proprio il cattedratico, l’intellettuale, il docente super laureato con lode e che parla dieci lingue.
Ecco perché primo compito dell’educazione è “rendere umani”, facendo sì che le giovani generazioni sappiano immedesimarsi nella tragedia, rendersi conto che una cosa del genere un giorno potrebbe ripetersi e toccare a chiunque, che il “non essere ebrei” non mette al sicuro nessuno da nuove ventate di odio e di intolleranza. Perché ieri erano gli ebrei i destinatari dello sterminio, domani potrebbe diventare chiunque di noi perché magari bianco o nero, cristiano, musulmano, ebreo o buddista, sano o malato, biondo o bruno, a seconda dell’ennesima declinazione della follia umana.
E la tragedia della Shoah va vissuta per quello che è stata davvero, una forma spietata di odio inaccettabile e infondato di esseri umani contro altri esseri umani, di fratelli e sorelle contro altri fratelli e sorelle, evitando di ridurre il tutto ad una “caccia all’ebreo”o avanzando paragoni con i nostri tempi che potrebbero sfociare nel giustificazionismo: della serie “gli ebrei sono i padroni della finanza”, “gli ebrei governano il mondo con i soldi”, “gli ebrei sono quelli che in Israele ammazzano i palestinesi” e così via, quasi lasciando intendere che in fondo Hitler tutti i torti non li aveva.
Ecco, è da tutte queste logiche che dobbiamo uscire (evitando dall’altra parte anche la banalizzazione della Shoah a fini propagandistici come avvenuto spesso negli ultimi tempi sfruttando il dramma degli ebrei per denunciare altri tipi di discriminazione), perché soltanto così, riscoprendo di essere umani indipendentemente dal livello di istruzione, dalle lauree e dai titoli accademici, riusciremo a rendere la Giornata della Memoria, non un evento celebrativo e retorico come rischia di diventare, ma come il momento in cui tutta l’umanità si riconosce e si immedesima totalmente nelle sofferenze di un popolo; perché soltanto così il nostro “MAI PIU’” sarà davvero efficace
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