La geopolitica è diventata di moda. È stata rilanciata alla grande dalla guerra in Ucraina. Da disciplina quasi esoterica, è diventata uno sport di massa. Basterà dire che è ormai il leit motiv del cicaleccio che s’ode in sottofondo nei bar, esautorando l’appassionante tema della corsa scudetto.
Il primo a gongolare è naturalmente Lucio Caracciolo: il numero speciale di “Limes” in presa diretta sugli eventi sconvolgenti di queste settimane è andato a ruba. Il trionfo della geopolitica lo si può apprezzare al meglio nei talk show. I politici si sono rarefatti. Al loro posto compare una variegata schiera di soggetti (militari, docenti e ricercatori universitari, ex inviati speciali, tuttologi, analisti non si sa bene di cosa, slavofili e slavofobi) riuniti sotto l’etichetta di “esperti”. Di che? Di geopolitica, naturalmente.
Tutto sommato, è uno spettacolo interessante. Se non altro, possiamo ascoltare gente abituata a studiare e a scrivere, personaggi che esprimono concetti mediamente più approfonditi da quelli che normalmente arrivano da chi è abituato a sparare banalità reboanti tra un tweet e l’altro. Diciamo che sale alla ribalta una categoria a lungo rimasta in seconda o terza fila. Buon per loro, anche se tutti costoro vanno generalmente strologando intorno al solito, monotono quesito: che c’è nella mente di Putin? Dalla geopolitica alla psycho-politica il passo è breve.
Ma il successo della geopolitica dà in testa anche ai geopolitici. Non è facile gestire dall’oggi al domani la moltiplicazione della platea. Un caso esemplare è quello di Federico Rampini, ex inviato de “la Repubblica” ora approdato al “Corriere della Sera” come editorialista, una firma prestigiosa, un prolifico autore di libri sulle aree più calde del globo, un giornalista e un saggista che conosce un’esplosione di notorietà da un paio di settimane. Tant’è che lo troviamo a gigioneggiare in bretelle rosse su tutti i principali talk show, una vera presenza ubiquitaria.
Be’, al Rampini superstar deve essere accaduto qualcosa di strano, perché ultimamente la sua vanità è salita a livelli sconcertanti. Innanzi tutto perché s’è autonominato gran sacerdote della rinata religione d’Occidente, un verbo che il Rampini rampante pretende di imporre con la forza del dogma, con l’intolleranza tipica dei neofiti. Fino a qualche tempo fa, apparteneva alla categoria degli aedi della globalizzazione. Ora, con la crisi ucraina, s’è messo l’elmetto (e le bretelle), ammonendo con aria grave sul possibile “suicidio occidentale” (come dal titolo del suo ultimo libro).
Ma il neosacerdote d’Occidente ha fatto anche di più, molto di più. La sua vanità è schizzata a livelli record con la collana di testi di politica internazionale varata dal “Corriere della Sera” nei giorni scorsi e della quale il Rampini stesso è curatore: per venti settimane il quotidiano di via Solferino manderà in edicola un testo di geopolitica, venti libri per permettere ai lettori di capire in quale diavolo di mondo stiamo precipitando.
Fin qui nulla di strano. Scorrendo però l’elenco dei venti titoli programmati si rimane decisamente sconcertanti. Il primo libro della collana è dello stesso curatore: “Le linee rosse” di Federico Rampini, per l’appunto. Non è proprio il massimo dello stile, no? Il secondo titolo ci riconcilia con l’iniziativa, perché si tratta di un testo cult della politica internazionale: “Ordine mondiale” di Henry Kissinger. Benone. Al terzo titolo assistiamo però a un’altra caduta di stile: “Il secolo cinese” , del solito Rampini. Mah… Il quarto titolo è un interessante libro di Daron Acemoglu e James Robinson, “Perché le nazioni falliscono”. E va bene. Alla lettura del quinto titolo cominciamo a essere presi da un divertito sgomento: ancora Rampini, con “Oriente e Occidente”. Insomma, per farvela breve, nove libri sui venti che compongono la collana appartengono al curatore della collana stessa.
Dove s’è mai vista una cosa simile? Invece che intitolarsi “Geopolitica, capire gli equilibri del mondo”, la collana poteva tranquillamente chiamarsi “La Rampineide”. Nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire. E pensare che, per fare posto allo straripante Rampini, mancano autori fondamentali come Edward Luttwak, Zbigniew Brzezinsky, Carlo Jean, Peter Hopkirk, Samuel Huntington. Se è nata con lo scopo di offrire un quadro di riferimento teorico delle questioni che agitano il globo, dobbiamo concludere che questa collana del “Corriere” lascia un po’ a desiderare.
Diciamo però che un genere letterario, a suo modo, Federico Rampini l’ha inventato: la geopolitica del pavone, o per meglio dire, la proposta editoriale come forma di autocelebrazione. Basta avere talento, bretelle rosse e tanta, tanta vanità.
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