La situazione politica italiana è tragica ma non seria. Ce lo conferma l’ultima tragicommedia targata M5S, con la fuoriuscita dal Movimento di Luigi Di Maio e la conseguente nascita di un nuovo gruppo, “Insieme per il Futuro”, cui hanno aderito 62 parlamentari (51 deputati e 11 senatori).
La tragedia sta nell’ulteriore colpo alla credibilità della già screditata politica italiana. La farsa sta invece nel profilo dei due personaggi, nel modo in cui si sono detti addio nonché nelle motivazioni, piuttosto piccine, dello spettacolo cui hanno dato vita davanti all’opinione pubblica nazionale e in particolare dinanzi ai loro elettori.
Ma procediamo con ordine. E proviamo a osservare più da vicino il primo aspetto, quello della tragedia. Dicevamo della credibilità della politica. Qui, in particolare, si tratta di un colpo alla possibilità di un suo rinnovamento. Va bene che il M5S ha cessato di essere un movimento di alternativa al sistema dal momento in cui ha fatto nascere il governo Conte 2 e, a maggior ragione, da quando ha deciso di rimanere nel palazzo del potere appoggiando il governo Draghi. Però la novità di quell’esperienza politica, l’ingenuità e l’inesperienza di molti suoi esponenti, le stesse micro-scissioni, le stesse polemiche, gli stessi conflitti interni di questi anni comunicavano comunque un senso di vitalità, un’immagine, per così dire, di freschezza, dando l’idea che, un giorno, da tanto travaglio sarebbe potuta nascere una formazione più solida e matura, tale da fornire, sperabilmente, un valore aggiunto all’intera politica italiana. E tale speranza, in fondo, era condivisa anche da chi non aveva mai votato M5S né l’avrebbe mai fatto.
Credevamo che fosse idealità invece era un calesse, diremmo parafrasando Massimo Troisi. La scissione promossa da Di Maio e la sua conversione “moderata” dopo aver portato il Movimento, nel 2018, al 33% in nome dell’opposizione all’Europa, fanno inabissare il M5S nel mare delle occasioni mancate della politica. Né c’è la speranza che l’ondivago Conte o il giramondo Di Battista possano risollevare le sorti di una formazione ormai screditata agli occhi dei suoi elettori. E non solo. Al massimo, i pentastellati che rimarranno, potranno aspirare al ruolo di stampella (sempre più piccola) del Pd nel “campo largo” che verrà.
Il paradosso è che la tragicommedia a cinque stelle avviene proprio mentre, in Europa (vedi il caso francese), monta la rabbia contro eurocrazia e poteri forti. Il M5S si dissolve nel tempo in cui cresce la voglia di alternativa. E queste ragioni, inalterate, del dissenso potranno premiare in un futuro forse prossimo altre, nuove formazioni che dovessero credibilmente proporsi come opposizione, non semplicemente a un governo, ma a un sistema. Se non fosse così, è probabile che alle elezioni politiche del 2023 assisteremo a un astensionismo gigantesco, come mai accaduto nella storia politica italiana. FdI, vista la sua conversione “conservatrice”, potrà intercettare solo in parte il voto in libera uscita dal M5S. Né potrà fare di meglio la Lega, a causa della crisi del Carroccio e della caduta di immagine del suo leader Salvini. Potrà semmai rappresentare una sorpresa Italexit, di Gianluigi Paragone. Anche lui, in fondo, è un fuoriuscito dal Movimento.
In questa ingloriosa fine del Movimento 5 Stelle c’è in fondo il segno di un destino già scritto, il destino di una formazione leggera e postmoderna, che ha potuto volare a lungo senza zavorre ideologiche e responsabilità politiche, ma che si è alle fine schiantata al suolo quando s’è rivelato in pieno il suo vuoto strutturale. Il M5S viene dal nulla e finirà nel nulla.
E veniamo ora alla farsa dell’ “epico” scontro tra “Gigino” e “Giuseppi”. Il primo non si riconosceva più nella politica imposta da Conte al Movimento. Nel frattempo aveva già smesso l’abito “rivoluzionario” per indossare il più elegante e comodo blazer istituzionale. Il “processo” che gli ha intentato il vertice del M5S sulla fornitura di armi all’Ucraina gli ha fornito il pretesto per quello strappo che probabilmente cercava da tempo.
Il secondo s’è rivelato un vero campione di incoerenza: s’è contrapposto a Di Maio nella posizione sulla guerra, assumendo un improbabile stile barricadiero che s’è dovuto alla fine, miseramente, rimangiare. Dulcis in fundo, è rimasto anche spiazzato dalla mossa del cavallo attuata dal furbo “Gigino” nel dirgli addio.
Sia l’uno sia l’altro devono decidere cosa fare da grandi e, in tale operazione, sono entrati in rotta di collisione, anche perché la loro inimicizia dura da tempo. Ma, dietro il loro scontro, ci potrebbero essere anche motivazioni più terra terra, almeno secondo i soliti bene informati.
Il punto –e ne ha parlato anche Francesco Bei su “la Repubblica”- si chiama “non oltre il secondo mandato”, nel senso della non ricandidatura dei parlamentari M5S che sono stati eletti per due legislature. Quindi, in teoria, neanche Di Maio si potrebbe presentare nelle liste del Movimento alle elezioni del 2023. E qui l’arbitro della sua situazione diventerebbe Conte, il quale, come presidente del M5S, ha ottenuto il potere di deroga, in pochi casi, alla regola della non ricandidabilità di un parlamentare dopo il secondo mandato. Il futuro politico di “Gigino” nelle mani di “Giuseppi”? Figuriamoci. Ecco che provvidenziale arriva la scissione di Di Maio e dei 62 parlamentari che lo seguono. Forse anche questi 62 sono interessati ad aggirare la regola del “non oltre il secondo mandato”. Resta naturalmente da vedere quale possa essere mai la sorte elettorale di una simile formazione.
Congetture diffuse da malelingue? A pensar male si fa peccato, ma, come sosteneva il Divo Giulio, ci si azzecca quasi sempre.
Come diceva il grande Leo Longanesi, le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono a tavola. Solo che questa volta i “rivoluzionari” si sono ben attovagliati già da parecchio tempo.
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