Almeno tre generazioni di europei sono vissute nel mito dell’America. Mito spesso positivo, a volte negativo, ma comunque mito. Perciò adesso hanno molte difficoltà a capire cosa succede, o meglio comprendono che le cose non sono più come prima, ma non possono crederci davvero e tendenzialmente odiano chiunque rischi di svegliarle dal sopore. Se poi mettiamo che le stesse generazioni hanno coltivato il mito di un’Europa che sta andando a catafascio e che si rivela diametralmente opposta a ciò che si diceva fosse o volesse essere, il quadro di confusione è completo, per cui anche qui il “nemico” diventa non chi ci ha portato alla situazione attuale, ma chi la mostra. Ovviamente lo smarrimento regna anche dall’altra parte dell’Atlantico dove da 15 generazioni si pratica una sorta di autocelebrazione. Per questo è incredibile ciò che si può leggere sui social riguardo ai dazi di Trump: dai senza testa che dicono “boicottiamo i prodotti americani” come se avessero messo il disco tante volte ascoltato e altrettante fallito, a quelli che i dazi sono fascisti, a quelli che l’Ue deve reagire e insomma tutta un’aneddotica disperante che si aggira in un dedalo cognitivo senza uscita.
Purtroppo tutto questo è superato solo dalla capacità di illusione che regna alla Casa Bianca dove si cerca una soluzione ai problemi del debito e della deindustrializzazione, nella convinzione che facendo la voce grossa e ricattando gli altri Paesi si riesca a rendere l’America di nuovo grande, senza alcuna riflessione sulle cause strutturali del declino. Ma con qualche minaccia e qualche gioco di prestigio, probabilmente funzionale a guerre interne, si va poco avanti perché le cose sono giunte a un tal punto che ogni via d’uscita possibile rappresenta una sconfitta o comunque un ridimensionamento del potere Usa. Un potere che essenzialmente deriva dalla posizione del dollaro come moneta di riferimento universale. Ora non ci vuole un nobel in economia per capire che l’attuazione generalizzata di dazi verso i propri “nemici”, ovvero le economie emergenti ed emerse, tenderà a restringere il potere del biglietto verde, come si diceva una volta, perché gli scambi in moneta locale diventeranno più convenienti. Inoltre il valore del dollaro se vuole attirare investimenti non può calare oltre un certo livello, mentre è proprio quello che consentirebbe una reindustrializzazione.
Insomma a qualcosa gli Usa devono rinunciare. Questo senza tenere conto che la politica dei dazi è completamente incoerente perché oggi gli States producono poco e a prezzi altissimi, quindi i dazi più che migliorare la bilancia dei pagamenti si trasformeranno in inflazione interna che sarebbe drammatica visto anche il bassissimo livello di risparmio, almeno rispetto al deficit. In due parole: per reindustrializzare occorre un dollaro debole, ma un dollaro debole toglie agli Stati Uniti la sua maggiore leva di ricatto planetario e dunque la ragione della sua primazia. D’altronde una prevalenza planetaria non può davvero essere conservata senza produrre beni materiali in quantità adeguata alla propria posizione. Bisogna scegliere l’uovo o la gallina, tenendo conto che dopo aver distrutto il pollaio ci vorranno almeno vent’anni per ricostruirlo e dunque chi ipotizza che la manovra trumpiana servirà a scalzare la Cina dalla sua posizione di fabbrica del mondo non si affida alla realtà, ma piuttosto al mito di cui si parlava. Certo questa può essere una leva di ricatto con Paesi che si sono deindustrializzati a loro volta, come l’Italia per esempio, il cui export è legato a produzioni di nicchia ovvero vini, moda, prodotti alimentari peraltro in prevalenza venduti a ceti benestanti poco toccati dall’aumento di qualche dollaro. Ma in un mercato planetario che vede l’export verso gli Stati Uniti in calo o in stallo (in volume) mentre aumenta di molto verso altre aree, attaccarsi come sanguisughe a Washington non porterà in prospettiva molti vantaggi, se non quello di migliorare la nostra immagine di servi sciocchi.
In ogni caso anche se gli Usa riuscissero in futuro a riedificare il pollaio esso avrà parecchi concorrenti, fra l’altro molto agguerriti dal punto di vista tecnologico. Ciò rappresenta un problema in più visto che tali competitori sfornano molti più tecnici, ingegneri, matematici, fisici di quanto non facciano gli Usa visto che i valori del globalismo e del neoliberismo che ne è la radice tendono a distruggere l’istruzione. Finora si è sopperito importando cervelli, ma – per esempio – questo non sarebbe possibile con un dollaro debole necessario alla reindustrializzazione.
La realtà è che nessuno sembra voler riconoscere la fine di un’epoca e di un sistema che è arrivato al capolinea, anche se i viaggiatori non vogliono scendere a costo di arrivare fino al deposito. Mentre tutto attorno scorre la vita.
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