E ora che succederà? È la domanda ricorrente in questi giorni di crisi di governo “sospesa”, con il presidente Mattarella che ha invitato Mario Draghi a un ripensamento sulla decisione di dimettersi da presidente del Consiglio. E con il premier che non ha potuto dire di no.
Ci sono cinque giorni di tempo per capite se, da parte di Draghi, si tratta solo di galateo istituzionale oppure se andremo effettivamente alla formalizzazione della crisi. È fissata per mercoledì 20 luglio la seduta delle Camere nel corso della quale il premier riferirà ai parlamentari la sua decisione di dimettersi, non senza togliersi –come è assai probabile – qualche “sassolino” dalla scarpa, anzi più di qualcuno. Dopodiché si aprirà il dibattito tra le forze politiche e sarà sicuramente un gioco al massacro con reciproche recriminazioni condite dalle prevedibili accuse di «irresponsabilità» e di far precipitare «il Paese al caos».
A quel punto piomberemo definitivamente nella crisi, una crisi invero strana: sulla carta Draghi avrebbe ancora la maggioranza, che gli verrebbe garantita dagli scissionisti di Luigi Di Maio. Ma il presidente del Consiglio ha già fatto sapere che non intende percorrere una strada simile. «La maggioranza di unità nazionale non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia»: così il premier ha detto ai ministri poco prima di salire sul Colle. Al di là di tutto, non si può fare a meno di notare che si tratta di un fatto insolito in un Paese in cui abbiamo conosciuto governi che sono arrivati al punto di reggersi con i voti determinanti dei senatori a vita. Di certo ci troviamo di fronte alla smentita del famoso motto di Giulio Andreotti: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
A questo punto quali scenari si aprono? Il più probabile sono le elezioni anticipate a fine settembre o nei primissimi giorni di ottobre. Non appena avrà preso atto dell’irreversibilità della crisi, Mattarella non aspetterà neanche un secondo a firmare il decreto di scioglimento delle Camere. La qual cosa potrebbe avvenire lo stesso 20 luglio. In tal caso gli italiani potrebbero recarsi alle urne già il 25 settembre. Non è prevista infatti la presentazione di alcun documento o mozione alle Camere. Il rischio, paradossalmente, sarebbe quello di un rinnovo della fiducia da parte del Parlamento: o con una maggioranza più risicata o, addirittura, con il voto di fiducia degli stessi M5S. Sarebbe a quel punto imbarazzante per Draghi dimettersi. Meglio evitare rischi. Il presidente non ci starebbe a farsi logorare per quasi un anno ancora. «Ne ho piene le tasche», ha detto a Giancarlo Giorgetti.
La ragione della fretta di Mattarella è semplice: con l’addio di Draghi, comincerebbe una corsa contro il tempo, sia per approvare la legge di bilancio (e scongiurare l’esercizio provvisorio) sia per approvare quello che resta per ottenere i fondi previsti dal Pnrr. Quindi prima si vota e meglio è.
Scenario B, il più improbabile: un nuovo governo presieduto da un’altra personalità “super partes”. Circola in questi giorni il nome del ministro dell’Economia, Daniele Franco. Per Conte sarebbe come il cacio sui maccheroni. Potrebbe farsi otto mesi all’opposizione scatenando l’inferno. E ciò nella speranza di ottenere qualche punto in più alle elezioni politiche, che a qual punto non si svolgerebbero oltre febbraio. E una soluzione simile potrebbe essere ritenuta conveniente anche da Enrico Letta, che avrebbe più tempo e più respiro per costruire una coalizione competitiva con quella di centrodestra. Va da sé che per una simile ipotesi ci vorrebbe l’assenso sia di Matteo Salvini sia di Silvio Berlusconi. Ma i due leader non ci pensano affatto, visto che, con le elezioni in autunno, la vittoria del centrodestra sarebbe sicura.
Scenario C: Draghi ci ripensa. Improbabile, ma non impossibile. È la speranza sia del Quirinale sia di largo del Nazareno. E, in fondo, dello stesso Giuseppe Conte. Per il M5S, le elezioni in autunno sarebbero un bagno di sangue. Non a caso, il presidente pentastellato ha fatto trapelare l’intenzione di votare a favore di una eventuale mozione di fiducia a Draghi. I vertici M5S sono in riunione pressoché permanente. Lo scontro tra falchi e colombe è durissimo. Ma, anche se prevalessero le seconde, non è detto che Draghi accetterebbe. Occorrerebbe una chiara manifestazione di volontà da parte del Movimento. E, anche in tal caso, la situazione sarebbe comunque appesa a un filo. Draghi vorrebbe, a quel punto, anche le rassicurazioni di Salvini. E, per il leader leghista, la scelta si presenterebbe drammatica: non è facile rinunciare a una vittoria elettorale certa. Matteo ha detto, tra il serio e il faceto, che sarebbe addirittura disposto a fare il ministro dell’Interno in un governo presieduto da Giorgia Meloni. Salvini è però tirato per la giacchetta anche dai governisti e dai presidenti di Regione. Non a caso Giorgetti ha auspicato che Draghi giochi i «tempi supplementari». Anche dentro la Lega lo scontro è duro. E in cinque giorni può succedere di tutto.
Comunque andrà a finire, la politica italiana avrà perso ulteriore credibilità. I mercati sono in agguato. E cattive notizie giungono già dal fronte delle borse e dello spread. Conte ha certo le sue gravi responsabilità, per i modi e i tempi con cui ha gestito la crisi. Ma non è il solo cui addebitare colpe. Anche Letta e il Pd hanno provveduto, nonostante si atteggino a “responsabili”, ad avvelenare il clima. Non c’era davvero bisogno di appiccare l’incendio sulle questioni dello ius scholae e della cannabis, offrendo con ciò il pretesto a Salvini per indebolire la tenuta della maggioranza. E, alla fine, le sue responsabilità ce l’ha anche Draghi. La sua netta scelta di campo in senso atlantista e la sua decisone di procedere come un treno nella vendita delle armi all’Ucraina hanno diviso il Paese invece di unirlo. Va bene che la guerra in Europa non era prevista. Però buon senso avrebbe consigliato un atteggiamento più prudente. Ma qui il problema va oltre i confini nazionali. Come spesso accade, da molto tempo, nelle crisi italiane…
fonte: