Covid, scocca l’ora dei giudici. Molti gioiranno. Ma ha un senso che la magistratura processi le scelte politiche della politica?
L’inchiesta avviata dalla Procura di Bergamo potrà sicuramente soddisfare il bisogno di giustizia di tanti. Dei tanti che hanno perso i propri cari. Dei tanti che ricordano con angoscia le file di bare che uscivano dagli ospedali. Dei tanti che non si rassegnano all’ondata di lutti che colpì la provincia orobica nella tragica primavera di 3 anni fa. Si poteva fare di più per limitare le vittime del Covid? I reati ipotizzati non sono uno scherzo: epidemia colposa, omicidio colposo, omissione di atti d’ufficio. Nel mirino dei pm sono finiti l’ex premier Giuseppe Conte, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, l’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, i componenti del Comitato tecnico scientifico che affiancava il governo di allora.
È sempre liberatorio, catartico, gratificante vedere potenti ed ex potenti tra le grinfie dei giudici. Risponde al richiamo primordiale del sacrificio, dell’espiazione, dell’olocausto. Ma è anche razionale? O meglio, è razionale in questo caso?
Per rispondere dobbiamo innanzi tutto capire l’esatto motivo per il quale sono indagati tutti questi eccellenti personaggi. I pm ipotizzano che si siano mossi con colpevole ritardo nei tremendi giorni di fine febbraio 2020. Non decretarono la zona rossa in Val Seriana (nel Bergamasco) quando, tra i Comuni di Alzano Lombardo e Nembro, si registrò un anomalo propagarsi del Covid. Il microbiologo Andrea Crisanti, oggi senatore del Pd, ritiene che si sarebbero potute salvare almeno 4.000 persone se fossero stati adottatati provvedimenti restrittivi in modo tempestivo. Invece si dovette aspettare fino al 6 marzo prima che Conte decidesse di “chiudere” la Lombardia. Si persero così giorni preziosi.
Proprio su una perizia di Crisanti si basa l’indagine della Procura. Indicativo il fatto che il microbiologo citi nel documento quanto affermato da Conte nel vertice a Palazzo Chigi sull’emergenza Covid del 2 marzo: «La zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico, ed economico». Di qui l’atto d’accusa: «Queste considerazioni hanno prevalso sull’esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario e i cittadini dalla diffusione del contagio».
Viste come accusa politica, queste affermazioni hanno certamente un senso. Ci fu sottovalutazione. Ci fu confusione. Ci fu il cedimento a pressioni di settori economici preoccupati per le conseguenze di provvedimenti restrittivi. Ma la domanda è: si può ipotizzare un reato da questi errori politici? La risposta razionale è no, non si può. Non si può perché il piano della politica è diverso da quello della giustizia, per quanto l’errore di chi comanda e di chi decide possa suscitare indignazione tra i cittadini. Non si può perché la politica è chiamata quotidianamente a prendere decisioni. E le conseguenze di queste decisioni possono essere benefiche, ma possono anche rivelarsi tragiche. Nessuno è in grado di stabilirlo prima.
Processare la politica con il senno di poi è certamente lecito. Ma solo se si rimane al piano della politica stessa. E anche della morale. È però del tutto arbitrario trasferire il senno di poi al piano della giustizia penale. Se così fosse, le istituzioni rappresentative del nostro Paese sarebbero in stato permanente di accusa da parte dei giudici. Quanti morti, ogni anno, sono ad esempio causati dai tagli alla spesa sanitaria? Quanta gente ci lascia la pelle a causa dei pronto soccorso intasati o delle diagnosi tardive a seguito di tac o risonanze magnetiche effettuate dopo quasi un anno dall’insorgere del sospetto di una grave malattia? Chi processare per le vittime causate dalla mancata manutenzione delle strade? E perché non mandare anche alla sbarra i responsabili delle leggi che consentono le delocalizzazioni selvagge delle imprese con tutto la scia di depressioni, alcolismo, tragedie famigliari che spesso segue la chiusura di uno stabilimento industriale in un territorio povero di risorse?
Ragioniamo per assurdo e per paradossi? E sia. Ma in realtà non facciamo altro che applicare la stessa logica che sembra muovere i magistrati di Bergamo: avviare un’indagine giudiziaria a seguito di una scelta politica, seppur dalle conseguenze nefaste. Diverso sarebbe naturalmente il caso se emergesse un interesse personale in tali scelte. In quel caso ci troveremmo di fronte a un gravissimo abuso di potere. Ma così non è.
E allora ci dobbiamo chiedere il perché di questa anomalia, tutta italiana, della confusione dei piani tra politica e giustizia, dei giudici che pretendono di censurare il comportamento dei politici, dei politici stessi che usano strumentalmente le inchieste dei giudici contro altri politici, della gogna mediatica che scatta regolarmente a seguito di ogni indagine eccellente. E non si tratta di un’anomalia a costo zero, perché a pagarla sono tutti i cittadini in termini di intasamento della macchina della giustizia.
Il motivo “tecnico” è lo strapotere dei pm, i quali non devono rispondere a nessuno (se non eventualmente all’interno dello stesso ordine giudiziario) per aver avviato un’inchiesta in modo temerario e arbitrario.
Ma il motivo vero e profondo è di tipo ideologico e deriva dalle ondate di giustizialismo che si abbattono sulla vita pubblica italiana da almeno trent’anni, cioè dal tempo di Mani Pulite, con i princìpi dell’etica pubblica branditi come clave e con la costante delegittimazione degli avversari. L’obiettivo non è tanto quello di vedere punito il politico della parte contraria quanto quello di decretarne l’indegnità morale.
Poi, naturalmente, gli applausi o meno a ogni, nuova iniziativa giudiziaria dipenderanno dalla convenienza politica. Così, ad esempio, coloro che oggi criticano l’iniziativa dei giudici sul Covid (perché va sotto inchiesta l’operato di un governo di centrosinistra) magari invocheranno, all’opposto, una iniziativa giudiziaria contro i ministri Matteo Piantedosi e Matteo Salvini per il naufragio di Cutro.
Alla base dell’endemico cortocircuito politica-giustizia c’è il malcostume sciacallesco di speculare sulle tragedie, ma c’è anche la cecità di una politica che affida ai giudici un compito tremendo: distinguere il bene dal male, i reprobi dai virtuosi, i buoni dai cattivi. Un compito davvero terrificante, visto che neanche i preti lo sanno più esercitare. O almeno non più come una volta.
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