di lorenzo merlo
Non ci sarà altro destino da quello infernale, che quotidianamente ci accompagna, finché la bellezza resterà fuori dal centro delle azioni. E finché resterà fuori, il brutto e il male seguiteranno a contagiare i pensieri e lo spirito degli uomini. Considerare un dovere sociale tenere al centro il razionale, il tecnologico, l’economico e l’interesse personale, è il compimento del brutto in quanto affermazione babelica, separazione dall’origine, esaltazione di sé.
Qualche considerazione sulla bellezza e i limiti della conoscenza cognitiva.
«Ogni lingua lineare è però una lingua logica; in altri termini, agisce, per così dire, in una dimensione e si blocca dinanzi al confine di più dimensioni».
Mohler, A., (1990). La rivoluzione conservatrice in Germania, 1918-1932: Una guida. Napoli-Firenze: Akropolis/La Roccia di Erec, pp. 96-97.
Il modo estetico
La bellezza, quando è solo una parola, riferisce di una categoria nella quale abbiamo posto qualcosa o qualcuno. Quando è invece una vibrazione, reifica un universo in cui le relazioni sono regolate prioritariamente dall’energia estetica, da una modalità di concepire e intendere il mondo, il prossimo, la realtà, che ha l’eros al centro. La modalità estetica risiede nell’ecologia del pre-pensiero. Il pensiero organizzato, interessato e politico la deturpano.
Diversamente opera la modalità etica, opposto energetico di quella estetica, il cui intento sta nell’affermare un ordine nelle relazioni, nella realtà e nel mondo. Anche a costo del sopruso.
Se il modo etico è rappresentabile dalla geometria piana, dalla fisica classica e dall’informatica, quello estetico ha un carattere fluttuante, risente di tutto e avverte tutto. Esso implica l’averci condotti a noi stessi, alla nostra vera natura – altrimenti sempre imbrattata e nascosta da strati di nozioni etiche e dai suoi saperi analitici – ora vera capitana delle nostre rotte nel mare della vita.
La cultura materialista in cui siamo immersi tende ad allontanarci dal senso della vita riducendolo al senso del successo. Un territorio in cui la bellezza è ridotta alla parola che allude al bello, ma non contiene il bene, e a uomini senza bellezza, ma pieni di individualistica vanità, tanto che si è separata la bellezza dal bene, credendo di fare scissione innocua. Una separazione tanto profonda che porta a deridere certe conclusioni. Del resto, come ci racconta Lao Tzü, quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao scoppia a ridere.
Per quanto nessun uomo – neppure il santo, il mistico, il malvagio e il violento – corrisponda a un metatipo illibato, né sia scevro da oscillazioni tra gli estremi del binomio etico-estetico, in termini manichei si può osservare che, nel caso etico siamo spinti a sovrapporre la conoscenza analitica-cognitiva-duale alla verità, a eleggere gli uomini a proprietari del mondo e di se stessi. Mentre in quello estetico diviene possibile conoscere attraverso il sentire, la liberazione dal conosciuto e la corrispondenza con il cosmo.
L’etico produce norme. L’estetico poesie.
L’etico amministra l’esistente. L’estetico ricrea.
L’etico segue canali ereditati. L’estetico ascolta il mondo.
Uno giudica, distingue, separa e aggrega, l’altro scopre, esplora, ammette.
Il primo usa la statistica, gli algoritmi e la matematica come miglior linguaggio per la descrizione della realtà – secondo lui – vera, quella misurabile. Il secondo utilizza il terzo occhio. Il primo è replicativo e storico, il secondo è ricettivo e creativo.
Uno ritiene che la conoscenza sia da acquisire, l’altro che è già in noi.
L’etico è entro una capsula impermeabile se non dalla norma. L’epidermide dell’estetico è sottile e vibrante come una vibrissa.
Ogni etico invidia l’estetico, come ogni estetico necessita di un etico. Il primo per vedere cieli altrimenti inesistenti in se stesso; il secondo per contenere e sfruttare l’esuberanza creativa. Il primo per navigare lontano, il secondo per tenere almeno un piede a terra.
Ideologie e relativi dogmi, differenze e separazioni, sono il basamento dell’incastellatura etica. L’identicità degli uomini, la consapevolezza della maschera delle forme, e il ritenere tutto espressione della vita, lo sono della prospettiva estetica.
Per l’etico esiste l’eretico. Per l’estetico non esiste eresia, neppure quella etica.
I computatori della vita sono meno inclini a sfruttare le informazioni su se stessi fornite dalle emozioni. Sono più stabili ed equilibrati, ma impediti a cambiare sembianze, a divenire altro da sé, a sfruttare la contemplazione per conoscere e la meditazione come medicina. Vedere e muoversi secondo bellezza non è, per loro, previsto.
«Anche nell’antichità esistevano due definizioni di bellezza che in qualche modo si trovavano in opposizione reciproca. […] L’una descriveva la bellezza come la giusta conformità delle parti tra loro e di esse col tutto. L’altra, derivata da Plotino, descriveva la bellezza senza alcun riferimento alle parti, come il trasparire dell’eterno splendore dell’‘uno’ attraverso il fenomeno materiale».
Wilber, K., (2022). Questioni quantistiche: Scritti mistici dei più grandi fisici del mondo. Roma: Spazio Interiore, p. 106.
Agli esseri estetici è come se piacesse il rischio. Puntare tutto sulla bellezza richiede fanciullezza, sconsideratezza, inconsapevolezza delle conseguenze e fede. Visti con ottica etica, essi sembrano coraggiosi e avventati. Al contrario, quelli etici, visti con ottica estetica, si muovono con accortezza, non sono che pusillanimi, procacciatori e cibo dello status quo.
Un po’ come per i materialisti, che non sospettano neppure che i loro attrezzi non servano per lavorare al banco alchemico, l’uomo etico, logico, razionalista, concreto, non ha modo di concepire il mondo se non nella sua espressione storica e individuale. A lui piace fermarsi al dito. Della luna non sa che farsene. Concentrato sui particolari da mettere e tenere in ordine, non la vede.
«E se volesse svegliarsi?
Potrebbe ad esempio cominciare a riflettere sul prezzo pagato dalla quantificazione dell’universo operata dalla mente duale e dal paradigma deterministico riduzionista da essa partorito. […]
Potrebbe anche chiedersi quanto spazio abbia riservato la scienza materialistica nella sua furia tecnologica al riconoscimento delle qualità più genuinamente umane, alla consapevolezza spirituale, all’amore, alla creatività, al sentimento, all’immaginario, alla bellezza».
Lattuada, P.L., (2012). Biotransenergetica: Qualcosa di nuovo, qualcosa di antico, una via che ha un cuore. Milano: ITI, p. 34.
La bellezza è anche una modalità di ricerca e una discriminante. Come la rabdomanzia richiede dedizione, non la si può praticare alla carlona. Essa si rivela ascoltando, seppur spesso sia nascosta da sembianze che non la evidenziano. Quando la bellezza accade, e anche quando è posta – non imposta – al centro nelle relazioni, si realizza la realtà estatica sempre latente, la cui verità non richiede strumenti di misurazione, prove del nove, metodo scientifico, per essere inequivocabilmente riconosciuta in noi, autentica, costituente e vera. La sola che conta, in quanto la sola in grado di dare senso profondo alla vita, di andare oltre l’effimero della storia. Non perché non abbia fine, ma perché con essa avvertiamo l’infinito e l’universale. Quando essa accade siamo benessere intimo e relazionale, premessa necessaria alla benevolenza e alla gratitudine incondizionata.
Il senso della vita concepito, soddisfatto ed esaurito in ambito etico-amministrativo, allude a titoli, denari, dialettica, erudizione, vita regolata dal diritto e dimenticata dalla natura, a una cultura intellettual-tecnicistica. Comporta accreditare le differenze formali come definitive, cioè l’impedimento ad accedere al simbolo e all’energetico.
Ma anche il baratro nero accompagna la modalità etica che, nonostante l’apparente contraddizione, è incarnata anche nell’edonista. Un abisso in cui il rischio di cadervi corrisponde alla tardiva presa di coscienza di avere dedicato l’attenzione alle autoreferenziali infrastrutture e averle credute verità. Mosche che riempiono il pugno di colui che si trova al cospetto dell’insospettato nichilismo.
Essere coinvolti in una caduta della bellezza-nella-relazione, ossia al tradimento spirituale, può arrestare i processi vitali-creativi. Essere forzatamente sottratti dalla bellezza è un’esperienza grave, che può comportare un crollo emozionale, uno svuotamento energetico, una morte spirituale. È quanto accade nella prevaricazione della norma, nell’impostura moralistica, nella menzogna. Un decadimento che, però, riguarda soltanto la personalità egoica, ancora incapace di vivere fenomenologicamente e assertivamente gli eventi, ancora sostanzialmente alla ricerca inconsapevole di un ordine da imporre o da vedere rispettato.
Ma le cose si muovono, i ruoli si invertono. Tendiamo a passare da una affermazione al suo opposto, e a tutti i grigi intermedi, in funzione di esigenze e circostanze più forti dei nostri valori e della nostra disciplina e stabilità. Del resto, la coerenza è disumana, se non nell’arido greto del razionalismo. Come detto, nessun uomo è un tipo puro, e chi lo è più degli altri è tanto più specialisticamente forte, quanto più olisticamente vulnerabile. Anche se – in senso lato – il nostro segno zodiacale e il nostro ascendente ci spingeranno sempre a vedere la realtà dalla loro concezione del mondo, nella storia tutti corrispondiamo alla verità dell’yin e yang, ovvero in ognuno c’è parte dell’altro. L’opposto che fuggiamo è il primo generatore di quanto desideriamo essere.
Secondo bellezza
Il bello è tale in quanto ci muove. Esso allude all’eros, all’energia vitale, tendenzialmente fievole nel replicativo burocrate ed effervescente nel creativo sentire. Esso è simbolo sublimante e tocca il profondo dell’umano, fino all’origine, fino all’archetipo comune e condiviso. Anche per questa sua abissale e inestinguibile dimora, esso risulta sostanzialmente inspiegabile dalla modalità espressiva della dialettica logico-razionale.
Il bello avviene, ed è percepito in noi. Ciò lo rende inequivocabilmente vero, mai accompagnato dall’esigenza di una qualsivoglia egida scientifica. Esso accade quando qualcuno o qualcosa è pertinente a qualche nostra esigenza di completezza. Questa può essere occulta a noi stessi o evidente. Dipende dal gradiente di consapevolezza disponibile su noi stessi in quel momento.
L’esplosione del senso di bellezza ci avverte con un’emozione magnetica nei confronti della parte mancante e risucchiante, totalitaria, più forte di quella di fondo che corrisponde alla cosiddetta identità di noi stessi. All’opposto, il brutto ci informa di cosa ci disturba.
Avvedersi, quindi, del valore dell’unità negli opposti è liberarsi di un laccio della catena di forza culturale che ci impone pensieri e azioni moralistiche ed egoistiche che nulla hanno a che fare con noi stessi, che tutto hanno a che vedere con modelli a noi esterni. E che mai divengono scuola evolutiva ma, al contrario, ci trattengono nello status quo dominato da ciò che i cattolici chiamano vizi capitali, ovvero, sempre secondo questi, fuori dalla grazia di Dio.
È opportuno considerare che il bello ci rapisce in quanto emozione di beatitudine, sospensione della storia e del pensiero, e dissoluzione dell’Io separatore – almeno nei confronti dell’oggetto risonante – quindi paradisiaca, estatica.
Nel tempo della sua durata avvertiamo benessere, la storia che ci circonda si obnubila silente, il pensiero cessa di rutilare, l’unione con l’oggetto risonante, sia esso un’idea creativa, una persona, una forma, eccetera, si compie, tanto da avvertire il diritto di esclusività e proprietà/appartenenza. In quel tempo, istantaneo come nell’eureka di una scoperta, nella presa di coscienza, nel momento della visione e dell’avvento della composizione della costellazione concettuale rivelatrice di un nuovo – per noi – orizzonte del mondo e, per eccellenza, nell’orgasmo; oppure perdurante come nell’innamoramento, nella serenità dell’amore incondizionato, nel sentimento materno, nella complicità e nell’amicizia, le pene e la loro memoria si scompongono nell’oceano estatico, che i cattolici chiamerebbero paradisiaco o, ancora, grazia di Dio.
È necessario osservare che nel bello è implicito il bene. I concetti di estasi e di paradiso lo contengono. Questi non sono solo grossolani richiami alla migliore condizione di vita, ma riferiscono di potenza energetica e di capacità illimitata, che hanno a che vedere con la salute, i buoni sentimenti, la disponibilità di forza per la gestione degli inconvenienti della vita, e la disponibilità nei confronti dell’autoeducazione alla migliore invulnerabilità. Un corso evolutivo che tende a realizzarsi in modo proporzionale alla decrescita di importanza personale e ai comportamenti dettati da questa e dal suo implicito moto d’orgoglio. E, viceversa, proporzionalmente alla crescita della disponibilità fenomenologica, ovvero della spersonalizzazione egoica degli eventi.
(Un culmine culturale ,questo, che permetterebbe di gettare nel fuoco le fandonie politiche del momento, dalla cancellazione della cultura, alla libertaria scelta del genere sessuale, al politicamente corretto, al pensiero unico, alla famiglia di piacere, alla madre da mercato e alla prole da menu, alle quote rosa, al sostenibile, all’impatto zero, all’economia circolare, all’esportazione di democrazia, all’ossessione dell’inclusività, al culto tecnologico e, più ampiamente, al perpetuare la storia come storia di conflitti, dagli infrapersonali, passando da quelli interpersonali e ideologici, fino a quelli economico-geoegemonici).
La percezione di bellezza allude altresì al senso del sacro. Si può, infatti, osservare che il sacro che siamo disponibili a riconoscere come tale è solo e soltanto quello che ci fa avvertire l’emozione della corrispondenza e dell’appartenenza. In questo modo, perfino la squadra del cuore è sacra.
Nel senso del sacro è presente un’estensione di noi stessi, come è sostanzialmente concepita, infatti, qualunque nostra funzionale parte del corpo o dell’immagine, dell’identità che crediamo di essere. Quale pianista è disposto a sacrificare un mignolo? Chi è disposto a svelare frivolisticamente i propri scheletri nell’armadio? Ma sarebbe sufficiente chiedersi quale uomo lo sarebbe se non per qualcosa di ulteriormente sacro, per esempio un figlio – a sua volta nostra estensione – una fede o un giuramento.
Secondo bruttezza
Specularmente al bello che implica il bene, il brutto è simbolo del male. Ma per intendere in che termini due binomi diventino diade serve una precisazione. Muoversi, agire nel mondo obnubilati dal proprio io, ovvero inconsapevoli della struttura che questo è, di cosa ci impone e di come, alla stregua di un parassita, viva della nostra energia, corrisponde a un agire egoico, slegato dall’origine, tronfio di importanza personale, totalmente identificato con il proprio nome, la propria professione, il proprio ruolo, sempre con qualcosa da imporre, da pretendere, da difendere. Diversamente, ovvero sentendosi espressione della vita e non solo il nome che portiamo, la professione che esercitiamo, la nazione che rappresentiamo, possiamo accedere alla consapevolezza che ognuno di noi è identico, che le differenze storico-biografiche sono spiritualmente solo formali e circostanziali, che operare per sé non ha alcun potere sottile nei confronti dell’evoluzione dell’umanità, nei confronti del superamento della gogna materialista.
Per questa figura esaurita sul proprio ego, nella quale anche un emancipato da essa può sempre ricadere, il brutto è da fuggire, in quanto non riconosce in esso un’informazione su se stesso e non può, quindi, farne scuola, non può, a mezzo di quell’informazione che non riconosce, illuminare i sottoscala di se stesso. La separazione da esso impedisce di rivelarci il cattivo che è in noi. Così muovendosi, l’ignaro seguita a perpetuare la falsa verità del dualismo, il cui fantomatico culmine corrisponde all’affermazione non del bene, ma di se stesso.
In questo modo, credendo di fuggire il brutto per alimentare il bene, perlopiù con strumenti moralistici, dunque egoici, compie il male.
Liberi dalla camicia di forza moralistica, si apre a noi la dimensione energetico-evolutiva. Uno stato in cui non si perseguire più la bellezza per vanità, e si lascia che il male sia liberamente praticato come innocua espressione umana. In sostanza, si accetta fenomenologicamente la realtà. Tuttavia, ciò non esclude il nostro intento d’amore, in quanto è ora mantenuto senza pretese, anche nei confronti di se stessi, come semplice messaggio nella bottiglia. Con la consapevolezza che non solo siamo corpo unico con lo stato dell’umanità, ma anche che ciò che siamo non corrisponde in alcun modo a qualche merito personale col quale permetterci di stilare graduatorie e selezioni. Col quale riconoscere che graduatorie e selezioni, funzionali in contesto chiuso tecnico-amministrativo, non hanno alcun significato, anzi, nuocciono se estese a quello aperto umanistico-relazionale.
Anche per questi argomenti e la loro sottaciuta concezione della vita, si può riconoscere l’origine e il destino dell’idea che l’uomo sia sulla terra per riunirsi all’Uno. In essi sussiste anche l’evidenza che la separazione da quanto non fa per noi, non è che un espediente dell’Io e della sua identità. Una specie di scudo della sua sopravvivenza. Il diavolo dei cristiani rappresenta il genio satanico con il quale essa cerca di impedire l’evoluzione che riporta all’Uno, che loro chiamano Dio.
La separazione dall’origine, che ha come contraltare l’esaltazione egoico-vanesia e, quindi, l’implicita impossibilità di conoscenza di noi stessi e degli uomini, comporta una concezione dell’uomo/di sé esclusivamente storica. Ciò porta dritti a osservare, qualora si voglia posare l’attenzione su qualunque punto delle vicende umane, che queste sono pregne di sangue e violenza.
Non è un passaggio secondario. Si tratta di un potere che trova corrispondenza nel messaggio cristico: sentire l’umanità, la sua sofferenza, attraverso la nostra, comporta il miglior potere benefico che l’individuo possa agire nei confronti di sé e dell’umanità stessa. Il potere spirituale terapeutico, tanto deriso dallo scientismo positivista-materialista, non ha bisogno di dimostrazioni. Ognuno può trovare, nella propria biografia, come uno stato di benessere profondo abbia comportato le migliori condizioni di vita, come uno di malessere accentui il peso, fino alla patologia, anche di risibili vicende. Uno stadio di coscienza che, riducendo il brutto a ciò che non ci rappresenta, non mai potrà compiersi.
Non è quindi improprio riconoscere in che termini il brutto rappresenti ed esprima il lato oscuro che insorge in noi come uno stupro del mondo egoico-ideale, come se questo ci spettasse di diritto inalienabile.
Un anelito che è fantomatica meta, se superstiziosa pretesa egoica, ma utopia concretizzabile quando esso è già nella nostra visione. Allo stesso modo, progetto fallimentare se acquisito per legge moralistica o numerata dalla Gazzetta, ma di successo se ricreato da noi stessi. Nessun tavolo esce dalle nostre mani se di esso non abbiamo un’idea. La forza di volontà necessaria a ogni creazione non riferisce un dovere ma un sentire, senza il quale essa non è che un braccio di ferro perdente contro forze profonde vanesie o egoiche e superficiali.
E nessun tavolo è il nostro tavolo, se l’idea da cui proviene è stata prima di altri. Tuttavia, è ancora il senso di bellezza nei confronti di un tavolo di altrui idea a unirci a lui, a portarci a vedere in esso noi stessi. Tavolo o sposa, non fa differenza.
È così che il brutto, o l’egoica separazione dalla vita, implica l’inferno. Ovvero quella condizione senza fuga dai tiranni, da ciò che non abbiamo risolto, dalle evoluzioni che non abbiamo percorso. Il brutto è ciò che non vogliamo, ciò che fuggiamo di noi, ciò che sosteniamo non ci rappresenti. È il pus delle nostre infezioni, di quanto non siamo stati capaci di accettare, dell’ottusa volontà di affermare di essere altro, di ferite tenute aperte dal rancore e dal desiderio di vendetta, è la malattia giunta al soma, teleologicamente insorta in noi per estinguerci in quanto male e, all’opposto, per chi sa interpretarlo, per dare lezione sul senso della vita.
L’assedio del brutto è, infine, l’assenza del processo di individuazione, la latente, ma immanente, presenza del thanatos e della prosa della vita, in sostituzione del formicolare dell’eros, che ne è invece, la lirica.
L’esperienza non è trasmissibile
La bellezza, come tutte le esperienze, non è logico-razionalmente trasmissibile. Essa corre su ponti emozionali, gli stessi dei nostri passi evolutivi, in occasione dei quali avvertiamo la conoscenza del Sé.
La gabbia logico-razionale che ci contiene a causa della nostra inconsapevolezza di essa, è a sua volta un’emozione, ovvero una capsula biografico-autoreferenziale con la quale concepiamo il mondo. Con essa, ci dicono gli esperti, possiamo spegnere d’un colpo dilemmi e incertezze. Vivendo al suo interno, siamo inconsapevolmente ma scientisticamente certi che a mezzo della dialettica, dell’erudizione e dell’eloquenza, possiamo trasmettere l’esperienza. Se così fosse, saremmo saggi da millenni, sapremmo sciare dopo l’opportuna spiegazione, torneremmo in noi dopo le parole del terapista meccanicista. Per niente! Ricreare è necessario.
L’impressione della trasmissibilità dell’esperienza appare dura da dissolvere soprattutto perché siamo estranei alle dinamiche della comunicazione. Essa sembra realizzarsi quando gli interlocutori dispongono di pari esperienza, utilizzano il medesimo linguaggio, conoscono e impiegano le stesse accezioni e lo stesso gergo, riconoscono in modo condiviso il significato delle allusioni, delle allegorie e analogie, e hanno il medesimo intento, come i complici e gli innamorati che, nell’idealizzazione, arrivano a modificare i propri canoni estetici o, più banalmente, a non vedere difetti e imperfezioni, nonché ad amarli. Allora avviene la comunicazione, ma non la trasmissione di esperienza. Al contrario quando quei requisiti mancano, anche uno soltanto, pure la comunicazione non avviene e il suo posto è preso dall’equivoco. Da certa letteratura esoterica prendiamo la formula secondo la quale siamo universi diversi. Questa allude all’idea che i vissuti delle persone possono facilmente impedire la comunicazione.
Secondo logica
Così come l’indagine analitico-logico-razionale-meccanicista-positivista non può che ricamare dialettiche intorno al concetto di bellezza senza mai coglierne il cuore, è invece la lettura esoterico-filosofica, evincibile dalla fisica quantistica – e da tutte le tradizioni sapienziali del mondo – a evidenziare e permettere la consapevolezza dei limiti degli strumenti a disposizione sul banco dell’officina materialista. Cioè la loro inettitudine a maneggiare le cose del discorso estetico-vibrazionale, quali sono la conoscenza emozionale e la natura della cosiddetta magia. Ma anche il flusso energetico informazionale dell’oracolo e quello del miracolo, ovvero il potere emozionale delle parole, grimaldello per scardinare le chiusure che impongono uno stato, una condizione e aprire l’accesso a una nuova concezione di sé. Un processo implicito in circostanze di accredito della fonte. È la verità nel discorso che si compie e il pensiero creatore che la realizza. Nel complesso, tutti elementi di una prospettiva utile per riconoscere che la realtà è nella relazione. Ovvero, secondo Gregory Bateson, nella mente che avviene o prende forma al cospetto di qualcuno o qualcosa. L’educazione, il fascino delle mode, la patologia del politicamente corretto, il seguito per la cultura della cancellazione, la psicologia del branco ne sono degli esempi.
Non solo pinze e trapani sono inadeguati a operare tra gli argomenti della conoscenza estetica, tra tutto quanto non si sottomette alle loro unità di misura graduata fino all’infinitesimo, ma l’incaponimento degli operatori nel persistere a utilizzarli e a restare nel flusso del processo logico-analitico, al fine di raggiungere la conoscenza autentica (dicono loro), li allontana, invece di avvicinarli, dalla natura del mistero che, impettiti, vorrebbero svelare.
È la sindrome scientista, ovvero quella che impone di credere che la sola e vera conoscenza avvenga a mezzo della scienza, che oltre a questa nulla è valido, e che ciò che essa non riconosce non esiste.
La realtà concepita come ente oggettivo, scomponibile fin dove la tecnologia lo permette, identica per tutti, composta da parti quantificate –rispondenti a leggi che permettono sempre di sapere la loro quantità di moto e posizione nello spazio – impone e deriva dall’idea di matrice cartesiana e newtoniana, illuminista e scientifico-materialista. Essa implica l’uomo e le sue relazioni ridotte a meccanismi, comporta una lettura e un’indagine del mondo esclusivamente appoggiata al piano logico-razionale. In questo modo, ritiene di restare entro un’interpretazione impeccabile e definitiva, oggettiva appunto, con il potere di scalzare dalla cultura e dall’immaginario quanto a essa non è confacente. È una realtà ridotta a materia misurabile, umanisticamente mortificante, quando non alienante e foriera, come su detto, dell’epidemia – oggi più falciante che mai – del nichilismo.
La logica non è il mondo
Nonostante il potere oracolare – come di tutte le narrazioni – della cultura che idolatra la scienza, si può osservare quanto la sua narrazione logico-razionale sia parziale e incompleta. Lo si può riscontrare anche a mezzo di questo articolo, anche qualora fosse stato redatto in modo impeccabile, tanto da ritenerlo universalmente eloquente. Tutto ciò che ho espresso sarà inteso come lo intendo io? Ciò che è scritto significherà sempre qualcosa per chiunque? È da escludere che possa indurre o provocare configurazioni opposte a quelle che ho cercato di delineare? Domande legittime: siamo universi diversi. In ambito relazionale, quale questo, l’equivoco è più frequente della comunicazione positiva.
Il linguaggio costretto nella camicia di forza meccanicista non è idoneo per raccontare la realtà, se non quella amministrativa. Senza il guizzo magico della poesia, capace, invece, di comprimere in una parola, per poi rilasciare in un’emozione l’infinito, saremmo consumatori orwelliani della vita. Se la logica esaurisse il mondo, il bello non esisterebbe e così ogni altra emozione. Senza emozione – come da sua etimologia – non c’è movimento, lirica, vita.
Mistero
Chiusi nell’incantesimo dell’arroganza babelico-razionalista, non ci si avvede che è la stessa domanda/ricerca primaria a generare il mistero, e con esso l’equivoco e il paradosso della logica quale presunta autorità assoluta. In forma meno altisonante, lo stesso accade nel quotidiano di chiunque quando insiste a conoscere ciò che qualcun altro non vuole rivelargli. Gli esempi possono essere molti. Tanto più ci si metterà in ascolto del mondo di colui che porta il segreto, tanto più potremo ricreare il percorso che a esso conduce. Trovandolo, a quel punto, non più investito di mistero ma di banalità.
Per banalizzare il presunto mistero del chi siamo?, del da dove veniamo?, è sufficiente liberare l’immaginario dalla camicia di forza logico-razionale, è sufficiente osservare come qualunque moto creativo insemini il processo che genera la realtà. E come questo corrisponda sempre a un’esigenza biografica.
Non si tratta di antropomorfizzare l’Ente supremo o chi per esso, bensì, più semplicemente, di riconoscere che esso è generato dall’analisi logica della realtà e che questo metodo d’indagine è fuorviante. Si può concludere che l’ente supremo siamo noi svestiti della camicia di forza. Così come la patologia viene meno a mezzo della consapevolezza di ciò in cui ci eravamo rinchiusi. Prima cercavamo con logica di attribuire responsabilità, poi assumendocela, vedendo in noi i creatori di realtà, ce ne siamo liberati.
Un’altra conoscenza
Basterebbe riconoscere l’autoreferenzialità – spesso taciuta, negata o maldestramente inconsapevole – della scienza e quindi del suo assolutismo, senza dover ricorrere al principio d’incompletezza di Kurt Gödel, per scongiurare il rischio della conoscenza limitata all’artefatta realtà oggettiva.
La pretesa scientista di risoluzione di tutto, sospinta dal suo conosciuto cognitivo, dalle sue strutture ordinate, non è in grado di dare risposta alle questioni ontologico-esistenziali. Tuttavia ogni uomo qualunque è in grado di conoscere esteticamente ciò che anche la scienza, in questi ultimi decenni, sta arrivando ad ammettere. Ovvero, l’esistenza e la verità di quanto il suo sistema di microscopi e vetrini non è in grado di ammettere.
«La filosofia critica di Nietzsche porta dunque a compimento l’impresa ‘semi-abortita’ di Kant: anche la ragion pratica, così come la ragion pura, non è in grado, per propria essenza, di offrire una risposta alle ‘domande ultime’; tutti i giudizi di valore, tutte le ‘morali’, tutte le ‘verità’ sono relative, non hanno alcun diritto ‘razionale’ all’assolutezza, a una validità universale. Ciò che qui viene però ‘storicamente’ annientato è appunto la ‘Ragione’, in quanto logos assolutizzato, della tradizione occidentale giudeo-cristiana».
Locchi, G., (2016). Sul senso della storia. Padova: Ar, p. 29.
La conoscenza estetica ci relaziona al mondo con i cinque sensi materiali e con il sesto vibrazionale. Come i primi possono essere materialmente zittiti, togliendoci per esempio il sapore di un cibo, così il terzo occhio è sempre dormiente per coloro che non si sono ancora ripuliti dall’inquinamento della messe di dati della conoscenza cognitiva o superficiale. Terzo occhio, le cui informazioni divengono disponibili alla coscienza solo dopo un’altra emancipazione, quella nei confronti dell’esperienza pregressa, ordinariamente considerata il massimo valore. Condivisibile in un campo chiuso, ma pericolosamente fuorviante in uno aperto/relazionale. Le emozioni e le loro imposizioni, sentimenti e i loro bisogni, il giudizio e la sua prevaricazione, sono entità informatrici della realtà nella relazione, che il rullo compressore dell’esperienza passata, come sommo e indiscusso criterio d’azione, può cancellare, spingendo le relazioni verso lidi conflittuali, d’indifferenza e d’incomprensione.
Divenire, meglio, ritornare la vibrissa ricettiva e di conoscenza che già siamo è recuperare l’ancestrale che vive in noi e fare della vita la straordinaria esperienza di bellezza che è, normalmente, affogata in questioni che la impediscono, fino a mutarla in sofferenza e malattia. È in questo il senso di chi sostiene che siamo nati per il paradiso e viviamo nell’inferno.
«La fisica classica si è data una forma sistematica. Ma la sua pretesa di costruire una descrizione del mondo chiusa, coerente, completa, espelle l’uomo dal mondo che descrive, non solo in quanto abitante di questo mondo, ma anche, l’abbiamo già detto, in quanto suo descrittore. […] Ignoreremo sempre e del tutto il rapporto tra il nostro mondo che la scienza rende trasparente e lo spirito che conosce, percepisce, crea questa scienza. […] La natura ha mille voci e noi abbiamo appena cominciato ad ascoltarla. Ma, da circa due secoli, il demone di Laplace infesta le nostre immaginazioni, rispunta senza tregua e, con lui, rispunta l’incubo del non senso del tutto, la solitudine allucinata di chi, per così lungo tempo, aveva creduto di essere l’abitante di un mondo fatto a sua misura».
Prigogine, I. & Stengers I., (1999)., La nuova alleanza: Metamorfosi della scienza. Torino: Einaudi, p. 80-81.
«Non si combattono più miopi ed ingenue pretese, che basterebbe ripetere ad alta voce per far ridere i ragazzi e ridicolizzare chi le sostiene. Si combatte il tipo stesso di conoscenza prodotta dal sapere sperimentale e matematico della natura».
Prigogine, I. & Stengers I., (1999)., La nuova alleanza: Metamorfosi della scienza. Torino: Einaudi, p. 88.
«La conoscenza oggettiva non è passiva, essa costruisce i suoi oggetti. Quando consideriamo un fenomeno come oggetto di esperienza effettiva, gli supponiamo, a priori, prima di farne una qualsiasi esperienza effettiva, un comportamento legale, che obbedisca a un insieme di principî. In effetti, sostiene Kant, possiamo fare questo tipo di supposizione, l’oggetto che percepiamo risponde alle nostre attese, perché è già sottomesso a questo ordine legale, perché è, in quanto percepito come oggetto di possibile conoscenza, il prodotto dell’attività sintetica a priori dello spirito».
Prigogine, I. & Stengers I., (1999)., La nuova alleanza: Metamorfosi della scienza. Torino: Einaudi, p. 89.
«Le possibilità di matematizzare i comportamenti fisici si limitano ai comportamenti più banali. ‘Un mattone non uccide un uomo per il fatto di essere un mattone, ma […] solamente il virtù della velocità che ha acquisito […]’ L’uomo è ucciso da quella che noi chiamiamo energia cinetica (mv2/2) cioè da una grandezza astratta che definisce intercambiabili massa e velocità: per ottenere lo stesso effetto, si può diminuire l’una se si aumenta l’altra. È proprio questo carattere intercambiabile, di cui Hegel fa una condizione per la matematizzazione, a sparire, quando si oltrepassi la sfera meccanica verso una sfera superiore».
Prigogine, I. & Stengers I., (1999)., La nuova alleanza: Metamorfosi della scienza. Torino: Einaudi, p. 94-95.
«Non è infatti ancora per nulla pacifico che la logica e le sue regole fondamentali siano in grado di offrirci, in generale, un criterio per il problema dell’essente come tale. […] Chi parla contro la logica è […] in modo tacito o espresso, sospettato di arbitrio. Si fa valere questo semplice sospetto come una prova e un’obiezione, ritenendosi esonerati da un più ampio ed autentico esame della questione».
Heidegger, M. (1972). Introduzione alla metafisica. Milano: Mursia, p. 36.
«Ogni possibile proposizione è formata legittimamente e, se non ha un senso, è solo perché noi non abbiamo ancora dato un significato ad alcune delle sua parti costitutive».
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1995, p 77-78, (5.4734).
«Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati”.
Wittgenstein, L. (1998). Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Torino: Einaudi, p,108, (6.52).
«Sembra giusto ritenere che la scienza, soprattutto a partire dal secolo XVII, con la sua strutturazione meccanicistica, abbia scisso il sapere dal senso comune. […] Con l’introduzione, inoltre, di tecniche sempre più raffinate e invadenti di formalizzazione matematica, essa avrebbe sottratto agli uomini comuni, al pensiero popolare, la visibilità della natura».
Wittgenstein, L. (1978). Della Certezza: L’analisi filosofica del senso comune. Torino: Einaudi, p. VII, (dalla prefazione di Aldo Gargani).
«È scomoda una teoria la quale attribuisce a noi stessi la responsabilità del mondo in cui pensiamo di vivere».
Watzlavick, P. (a cura di), (2008). La realtà inventata: Contributi al costruttivismo. Milano: Feltrinelli, p. 17.
«La maggior parte degli scienziati si sentono ancora oggi ‘scopritori’, coloro che rivelano i segreti della natura e allargano lentamente ma con sicurezza il campo del sapere umano; e innumerevoli filosofi si dedicano al compito di assicurare a questa conoscenza faticosamente acquisita l’inconfutabilità che tutti si aspettano dalla verità ‘autentica’».
Watzlavick, P. (a cura di), (2008). La realtà inventata: Contributi al costruttivismo. Milano: Feltrinelli, p. 19.
«Alle radici della visione della fisica classica stava la convinzione che il futuro fosse determinato dal presente, per cui un attento studio del presente permette di svelare il futuro. Certo in nessun momento questo è stato qualcosa di più di una possibilità teorica. Eppure in un certo senso questa possibilità di previsione illimitata è stata un elemento essenziale dell’immagine scientifica del mondo fisico. Possiamo forse definirla il mito fondatore della fisica classica. Oggi la situazione appare profondamente mutata […] quale risultato della necessità di prendere in considerazione il ruolo dell’osservatore. […] Il realismo ingenuo della fisica classica, che supponeva che le proprietà della materia fossero ‘là’ indipendentemente dall’apparato sperimentale, ha dovuto essere rivisto».
Prigogine, I., (1986). Dall’essere al divenire. Torino: Einaudi, p. 192.
«La nostra esperienza del mondo consiste nell’ordinare in classi gli oggetti che percepiamo. Tali classi sono costrutti mentali e perciò di un ordine di realtà completamente diverso da quello degli oggetti stessi. Le classi sono formate non solo in base alle proprietà fisiche degli oggetti, ma soprattutto in base al significato e al valore che hanno per noi. […] Ciò che viene definito la ‘realtà’ di un oggetto è, appunto, la sua appartenenza ad una classe; per cui chiunque lo consideri un membro dell’altra classe deve essere folle o cattivo».
Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change: Sulla formazione e soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio, p. 107.
«È assai probabile che la realtà sia quella che noi rendiamo tale o, per dirla con le parole di Amleto, ‘… non v’è nulla di buono o di cattivo, che il pensiero non renda tale’. Noi possiamo soltanto congetturare che alla radice di questi conflitti di punteggiatura ci sia la convinzione, saldamente radicata e di solito indiscussa, che esista soltanto una realtà, il mondo come lo vedo io, e che ogni opinione diversa dalla mia dipenda necessariamente dalla irrazionalità dell’altro o dalla sua mancanza di buona volontà».
Watzlawick P., Helmick Beavin, J., Jackson, Don D. (1971). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio, p. 87.
«È per questo che Gödel affermava: ‘Il mio teorema mostra solamente che la meccanizzazione delle scienze matematiche, e cioè l’eliminazione della mente e delle entità astratte, è impossibile’».
Bolloré, M.Y. & Bonnassies, O. (2024). Dio. La scienza. Le prove: L’alba di una rivoluzione. Milano: Sonda, p. 339.
«David Hilbert è stato uno dei più grandi matematici del ventesimo secolo. A lui si deve la stesura di un elenco di problemi che i matematici dell’epoca avrebbero dovuto impegnarsi a risolvere in futuro. Uno di questi gli pareva particolarmente essenziale: dimostrare che la matematica costituisce un sistema contemporaneamente completo e coerente. […] In effetti se fosse possibile tale dimostrazione, in teoria si potrebbe giudicare la falsità o la veridicità di qualunque proposizione logica. Hilbert non esitava a chiamarla la soluzione ‘finale’ al problema della logica. […] È evidente qual era l’ideologia dietro a questa ricerca: quella di ‘delimitare’ il reale, di rinchiuderlo in se stesso, di dire ‘ecco, abbiamo analizzato completamente la questione, adesso circolate, non c’è più niente da vedere, abbiamo esaurito la realtà, l’abbiamo racchiusa nelle nostre equazioni’ che come abbiamo visto si trovava al centro del positivismo logico e del materialismo dialettico che dominavano le scienze sul finire del diciannovesimo secolo».
Bolloré, M.Y. & Bonnassies, O. (2024). Dio. La scienza. Le prove: L’alba di una rivoluzione. Milano: Sonda, p. 331.
«Certamente è al teorema di Gödel che pensa il celebre fisico e cosmologo Paul Davies nella conclusione del suo libro intitolato La mente di Dio, quando dichiara: ‘Ma in definitiva, è quasi certamente impossibile una spiegazione razionale del mondo inteso come un sistema chiuso e completo di verità logiche. Siamo tagliati fuori dalla conoscenza ultima, dalla spiegazione ultima, per via di quelle stesse regole che ci spingono a cercare tale spiegazione […] Se desideriamo andare oltre, dobbiamo affidarci a un concetto diverso di “comprensione” rispetto a quello suggerito dalla razionalità. La via mistica è forse una strada verso tale comprensione. Io non ho mai vissuto un’esperienza mistica, ma mantengo la mente aperta riguardo al valore di queste esperienze. Forse rappresentano l’unico modo per trascendere i limiti che la scienza e la filosofia non possono varcare, l’unica via possibile vero l’Ultimo’».
Bolloré, M.Y. & Bonnassies, O. (2024). Dio. La scienza. Le prove: L’alba di una rivoluzione. Milano: Sonda, p. 343.
F.Q.
Nonostante quanto accennato finora possa bastare per rivisitare la propria idolatria scientista – tanto quella della vulgata, quanto quella degli esperti scienziati – in questo discorso sui limiti del mondo evinto dalla logica, un cenno alla fisica quantistica va fatto. Questa, infatti, pare idonea a rappresentare quanto prima era esclusiva della magia. Ovvero di quella scienza giustamente detta suprema il cui campo non è quello piccolo autoreferenziale e amministrativo dei saperi cognitivi. Essa è il mazziere dell’intero mondo relazionale, ovvero di tutto quanto accade nel nostro universo e nell’incontro tra universi. Il cui regolamento non è duale ma olistico, non bidimensionale, ma volumetrico.
Il destino della fisica quantistica è riunirsi alla grande ricerca umanistica condotta da millenni dalle Tradizioni sapienziali del mondo intero. Una via percorribile da chiunque si emancipi dal dominio della materia, primo passo verso la visione energetica della realtà. Allora, qualunque sia il suo linguaggio, la sua erudizione e la sua eloquenza, con esso saprà narrare che dietro ogni consistenza fisica ve n’è una immateriale.
«La fisica atomica ha distolto la scienza dalla tendenza materialista».
Heisenberg, W. (1963). Fisica e filosofia. Milano: Il Saggiatore, p. 65.
«La morte dello scientismo, del suo determinismo, del suo sogno di una scienza trasparente capace di accedere ai segreti dell’Universo è stata una specie di agonia per i premi Nobel che hanno vissuto l’avventura quantistica».
Bolloré, M.Y. & Bonnassies, O. (2024). Dio. La scienza. Le prove: L’alba di una rivoluzione. Milano: Sonda, p. 279.
Nota
* Già pubblicato su “Materia Prima – Rivista di Psicosomatica e Ecobiopsicologia”, XIV, 24, 2024, pp. 39-48.