di lorenzo merlo ekarrrt – 230123
Il dominio del razionalismo, quello della cosiddetta realtà oggettiva e del meccanicismo, ha alcuni inconvenienti. Qualcuno ne ha preso coscienza e ha maturato le consapevolezze utili per ridurre i danni affettivo-esistenziali che esso è destinato a generare, se mantenuto in ambito relazionale. Ma è una cultura che manca.
Hai voglia di parlare di io e di sé. Di spiegare che uno è una struttura e l’altro una natura. Di spendere parole, discorsi e libri per raccontarlo.
Non solo perché razionalmente non avviene alcuna comunicazione che non sia tra individui con pari competenze, ma anche perché – all’opposto – l’insistenza e la ripetizione razionale sono esattamente ciò che serve per alzare il muro che separa l’altro da noi, quando tra le parti non è presente né la medesima consapevolezza, né lo stesso punto di attenzione.
Ma all’osservazione che razionalmente non avviene comunicazione ne va affiancata una seconda. Consiste nel riconoscere che l’esperienza non è replicabile, né trasmissibile. Sempre salvo tra parigrado. Ma a questo punto si deve parlare di memoria richiamata, non di trasmissione di esperienza. Un po’ come quando qualcuno ci imbocca con la parola che ci era rimasta sulla punta della lingua.
Alla faccia dell’intento razionalista adottato – nonostante le evidenze contrarie – come se fosse giusto e il solo, la comunicazione passa attraverso canali emozionali. È per questo che un capo è un capo, un maestro un maestro, un eroe un eroe. Generalizzando, si può dire che quanto più accreditiamo la fonte del messaggio, tanto più il contenuto di questo è riconosciuto e fatto ideologia. È lo stesso meccanismo del miracolo e dell’oracolo. Il medesimo che McLuhan aveva magistralmente sintetizzato con “il medium è il messaggio”.
Ma tutto ciò riguarda la cultura che manca.
Dire che la comunicazione ci unisce transitando su ponti emozionali, a volte alogici, è anche dire che ne ricreiamo il contenuto con parole e soprattutto consapevolezze nostre. È a quel punto che il messaggio corrisponde alla verità. È un’esperienza diretta, di sentire e di carne, che allude ad un’altra verità. Ovvero che la conoscenza è già in noi. Richiede soltanto di essere sfiorata dove opportuno, per darci un eureka o un orgasmo, è la stessa cosa.
Senza l’esperienza diretta, viviamo in mondi individuali. Nonostante ciò, la superstizione della logica e della ragione, quali sole depositarie della verità, è tale per cui ci impone di impiegarle in ogni circostanza, dunque anche inopportunamente.
Esse funzionano in ambito amministrativo, quello in cui tutti sanno tutto, ma non sono altro che un danno, un’entrata a gamba tesa in contesto relazionale. Psicoterapeuti, certi didatti, certi pedagogisti e certi medici lo sanno.
È il resto del mondo che avanza ignaro, con tutto il suo potere distruttivo, quando dovrebbe adottare la modalità dell’ascolto, della legittimazione, della reciprocità, in sostituzione di quella egoica dell’affermazione.
Ma, a proposito di legittimazione, è un resto del mondo che ha tutto il diritto del suo ritardo in consapevolezza.
Dalla sua c’è un lungo filo rosso che glielo consente. Parte da Euclide con la sua geometria piana e da Aristotele con la sua logica, prosegue con Galileo e il suo metodo, a sua volta unito a Descartes e il suo dualismo, fino a Newton e le sue leggi, per arrivare a congiungersi con le categorie di Kant e perfino con l’assolutismo della velocità della luce di Einstein.
Come ci si poteva sottrarre a tale mole, il cui culmine sta nell’oggettività della realtà, nel legittimo predominio dell’analisi? Lo stesso che porta a credere di poter prendere un pezzo e di poterlo studiare, dando per certo che arriverà a trovare la verità. Con questo retroterra – vantatamente scientifico, al fine di sgombrare il campo da tutte le modalità di ricerca che non gli si confanno – come poter avere un’idea differente da quella che la realtà è lì davanti a noi? Come non avere tutti i diritti ad escludere che la realtà senza di noi non esiste e che, quando ci siamo, essa è una nostra creazione?
Ma non basta. La mente di Bateson, il discorso di Foucault, l’evoluzione di Maturana, l’equilibrio di Prigogine, il linguaggio di Lacan confortano l’idea che il discorso di quella mole logico-razionale non poteva in alcun modo venire disatteso. Esso non era che una scelta tratta dal volume – l’infinito che precede la storia –, disposta strumentalmente entro il campo autoreferenziale a dimostrazione della supremazia del razionalismo.
Già! Come infatti combattere contro l’idea da tutti eletta, scienza in primis? Quella di una realtà quantificabile, materiale, oggettiva, razionalmente indagabile, scientificamente autenticabile, deterministicamente prevedibile, riduzionisticamente ovvia, razionalisticamente comprensibile, meccanicisticamente progettabile.
Quel popolo non era legittimato dalla narrazione che lo aveva orientato come la segatura di ferro al magnete? Come il Duce dal balcone e il potere del suo credito: chi tra i senza opportune consapevolezze poteva non esaltarsi?
È la cultura che c’è. Per quella che manca, quella in grado di riconoscere che siamo universi diversi, che non c’è un solo cosmo, che la verità alogica e olistica non è ciarlatana, ognuno deve mettere in moto l’eros della vita creativa ed evolutiva, e prendere le distanze dal thanatos ripetitivo e spiritualmente mortificante.