Nel gran casino dei dazi ciò che si riesce a comprendere bene è che questi vengano usati contro la Cina che rischia di offuscare gli Usa, ma che soprattutto sta seppellendo sotto una piramide di prodotti e di innovazioni il vecchio faraone dell’Occidente e il suo paradigma privatistico: un economia centralizzata si sta rivelando più efficiente e dinamica di quella neoliberista. Non è certo un caso che questa battaglia sia stata dichiarata in maniera così ostentata da un’amministrazione formata principalmente da miliardari che intendono preservare in primo luogo proprio se stessi e il sistema nel quale hanno sguazzato. Non è possibile dire ora quale sarà il risultato di questa guerra dei dazi, va però detto che il ritorno all’imperialismo tout court al posto del globalismo guidato da Washington, fondato su massimalismi ipocriti oltre che sul costante stato di emergenza e di controllo della popolazione, possa alla fine sortire il risultato di reindustrializzare gli Usa o altri Paesi. Non ci sono soltanto problemi di costi, di reperimento delle risorse e di prezzo finale: il neoliberismo ha agito in profondità nella psiche occidentale determinando cambiamenti che rendono molto difficile invertire la rotta e gestire il passaggio da un’economia finanziarizzata a una produttiva. Come si sa le strade che portano all’inferno sono facili e in discesa, ma risalire è molto complicato.
C’è un video che gira su TikTok in cui i cinesi prendono in giro l’idea di riportare in Usa il lavoro, a suo tempo esternalizzato, mostrando una serie di grassoni che lavorano con estrema lentezza e che in qualche caso si mangiano i prodotti che dovrebbero confezionare. Il fatto è che la realtà non è poi così lontana da questa immagine satireggiante perché in effetti la popolazione americana non sembra interessata a questo tipo di trasformazione. Secondo quanto emerge da un sondaggio fatto dal Cato Institute e da You Gov, sebbene la maggior parte degli americani concordino sul fatto che avere più attività manifatturiere negli Stati Uniti sarebbe un vantaggio per il Paese, sono molto meno i cittadini che immaginano di lavorare nel settore. solo il 20 per cento prenderebbe in considerazione un lavoro nel campo manifatturiero, mentre l’80 per cento non ne vuole sapere. La maggior parte della forza lavoro negli Stati Uniti ha abbandonato il ramo di produzione materiale come opzione lavorativa redditizia o non è comunque interessata a un impiego in tale campo. Gli stabilimenti manifatturieri statunitensi rimasti segnalano infatti da alcuni anni difficoltà a reperire un numero sufficiente di lavoratori idonei e affermano che il problema sta peggiorando.
Il motivo sta nel fatto che nella produzione moderna la fatica manuale è molto diminuita, ma è parecchio aumentata quella intellettuale perché occorre apprendere competenze che richiedono un serio sforzo. Per esempio, ma è solo uno fra i tanti, la conoscenza dei codici G per le macchine a controllo numerico che esige molta concentrazione oltre che una conoscenza di base della matematica e questo con una scuola che richiede sempre meno impegno anche nelle sue funzioni di addestramento più che di formazione culturale. Provate a spiegare a un ragazzino che sogna di diventare un “blogger” , un “influencer”, il leader della miliardesima inutile band, un personaggio dei media o magari anche tentare la strada di OnlyFans. che forse potrebbe lavorare in fabbrica: verreste coperti di insulti. La verità è che la stragrande maggioranza della popolazione americana e anche di quella europea se si fa riferimento all’ultima generazione, considera il lavoro nel settore manifatturiero come una sorta di anatema: faticare per apprendere e poi lavorare otto ore senza poter assumere droghe di qualche tipo non è certo qualcosa a cui si aspira. Se proprio sono portati per lavori più strutturati favoleggiano di entrare in qualche corporation ridotta a ufficio commerciale in cui si immaginano app, campagne vendita, cazzi e mazzi vari che altri realizzeranno e non certo negli States.
Non è più una questione di salari come sembrano pensare gli ingenui, è diventata una questione culturale per cui al massimo i dazi di Trump potranno spostare certe aziende dalla Cina all’India o al Vietnam o alla Malesia, fermo restando che gran parte poi del lavoro di punta verrà svolto in Cina. Anzi quest’ultima sarà spinta a massimizzare il progresso tecnologico, esattamente come accadde per il Giappone 70 anni fa. Insomma tutto è in qualche modo collegato all’illusione che sia possibile tornare indietro con facilità nel momento in cui i costi per i concorrenti dovessero salire come appunto Trump intende fare con i dazi. Ma non è così perché alla fine i modelli economici determinano tutto il resto della società e non sono intercambiabili con un click.
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