Sovranismo, ovvero il destino (amaro) delle parole in politica. Fino a qualche tempo fa era sulla bocca di tutti, ora sembra sparito da scritti e discorsi. Che cosa è successo?
È successa una cosa molto semplice: evocare il sovranismo non serve più a nessuno. Non serve più innanzi tutto alle forze politiche (FdI e Lega) che hanno più convintamente richiamato questa parola negli ultimi anni. E ciò per rastrellare consensi nella vasta area delle nuove rabbie sociali, delle nuove paure, delle nuove frustrazioni prodotte dalla globalizzazione e dal potere finanziario. Ora, con il profilo di governo assunto dal 25 settembre scorso in poi, non è più tempo, per (gli ex?) sovranisti, di protestare contro i poteri forti globali (a partire da quelli europei), ma di conviverci, cercando di strappare le condizioni migliori per il nostro Paese. L’accordo tra Giorgia Meloni e il premier olandese Mark Rutte (finora sempre contrario agli interessi dell’Italia) su migranti e lotta ai trafficanti è l’ennesima prova della nuova postura europea della destra italiana.
Evocare il sovranismo (ma in forma di spettro) non serve più nemmeno alla sinistra. Con l’avvento di Elly Schlein alla guida del Pd, l’attacco al sovranismo stesso ridiventa una delle possibili varianti della polemica antifascista rilanciata alla grande dalla nuova leader piddina, una ripresa di polemica di cui abbiamo avuto l’anteprima con la manifestazione di Firenze di sabato scorso. Del resto, per una Elly che imbocca decisamente la svolta a sinistra, la polemica antisovranista potrebbe rivelarsi un boomerang, perché la farebbe apparire vicina a quei poteri forti dai quali è bene per lei tenersi, almeno formalmente, lontana. Diciamo “almeno formalmente” perché la realtà potrebbe essere diversa, come ci fa sospettare l’intervista del “New York Times” con la Schlein pubblicata in tempo record subito dopo la vittoria di Elly nei gazebo. Ma, di quest’ultimo aspetto, è ancora presto per poterne parlare.
Hanno quindi tutti scherzato? Questa parola (che ha sconvolto la politica europea degli ultimi anni) verrà presto riposta in soffitta, per essere nuovamente riscoperta e (ri)evocata chissà quando?
La realtà non è così semplice, perché dietro le parole ci sono sempre i concetti. E non c’è dubbio che il concetto di sovranismo ci riporti ai processi economico-sociali avvenuti su larga scala nella società occidentale dell’ultimo decennio: dall’impoverimento dei ceti medi e delle fasce popolari all’esplosione dell’insicurezza sociale prodotta da migrazioni e islamismo terrorista.
Diciamo, più in profondità, che questo fenomeno non ha trovato finora una sua precisa sistemazione ideologica, rimanendo allo stadio dei sentimenti e delle pulsioni collettive. Secondo il politologo Allessandro Campi il sovranismo può essere considerato un «espediente politico-psicologico grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e strati sociali». Questa critica del sovranismo è contenuta in un interessante saggio di Campi arrivato in libreria in queste settimane (“Il fantasma della nazione”, Marsilio ed., pp.205 eu.15,00), libro nel quale lo studioso ricostruisce l’idea di nazione che si è diffusa nel nostro Paese dal tempo della Destra storica in poi, fino ad arrivare ai nostri giorni e al modo in cui viene declinata a destra il concetto di sovranità nazionale.
L’autore arriva a una conclusione apparentemente paradossale: il sovranismo è «contro» la nazione. In che senso? Nel senso che il tipo di nazionalismo da esso proposto è meramente «difensivo e reattivo» e, come tale, profondamente diverso dal nazionalismo storico, che era invece «espansivo e dinamico», un’idea rivolta a «proiettare fuori dai suoi confini storici la potenza economico-politica del proprio paese».
Senza certo rimpiangere le avventure coloniali di un tempo, ci sarebbe oggi bisogno di un’idea di Italia capace di affrontare a testa alta le sfide globali. Di qui l’amara conclusione di Campi: «Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi».
Non c’è dubbio che si possono ritrovare in questa tendenza politica diversi aspetti regressivi e un’idea di nazione piccola e impaurita.
A questo punto viene però da porsi una domanda: sta solo nella riproposta dell’idea, del sentimento e del valore di nazione la forza del sovranismo? O non c’è per caso qualcosa di ancora inespresso e di potenzialmente dirompente, qualcosa che ci deve spingere a non decretarne frettolosamente l’archiviazione? Sì, questo qualcosa c’è e si chiama trasversalità ideologica. Il punto vero, quello che i suoi teorici (ammesso che ce ne siano) non hanno ancora compreso bene è che il sovranismo ha tutte le capacità di essere coniugato in diverse forme, non solo a destra, ma anche a sinistra. E ciò potrebbe comportare la rimodulazione dei contenuti ideologici sia dell’una sia dell’altra negli anni a venire.
Il problema di fondo, ancora irrisolto, è questo: alle declinanti politiche liberiste e monetariste, che sono comunque alla base dell’odierno disagio sociale , non si sono ancora sostituite né una teoria né una pratica alternative. Stiamo vivendo una confusa fase di passaggio e chiamiamo questa fase età del pragmatismo.
Gli odierni movimenti sociali e politici non si sono finora dimostrati capaci di imporre una svolta. La destra ne ha avuto l’opportunità, ma s’è lasciata scappare l’occasione, non riuscendo a passare, dal sovranismo nazionale, a un più compiuto sovranismo sociale. Non andrà sempre così. Altri soggetti potrebbero riuscire, nel medio periodo, nell’impresa. C’è un’ampia domanda politica insoddisfatta, come dimostrano le paurose percentuali di astensionismo. E qualcosa, prima o poi, accadrà. Possiamo esserne certi.
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