Affluenza-flop. Il 20,9% al referendum e il 54% alle amministrative. Come la giri la giri male. Tutte le analisi, che stanno occupando, invadendo i media, i giornali, il Palazzo, relative alla disaffezione ormai cronica rispetto al voto, rischiano di essere relative e parziali. O meglio, c’è un elemento di verità in ogni approfondimento, ma nessuna tesi è esaustiva e definitiva.
La comunicazione ufficiale ha sempre detto che la società è lontana dalle istituzioni, che l’offerta politica è scadente, a cominciare dai candidati, ma quasi nessuno si è posto il problema di rimediare seriamene. In fondo al sistema conviene così: una minoranza che propone e dispone e una massa becera abbandonata e inutile.
Stiamo parlando della stessa vulgata ufficiale che riteneva le amministrative più vicine alla gente. E invece, pure domenica si è registrata la medesima percentuale di assenti.
E’ più che un trend, è una tendenza consolidata. Uno su due non vota. Le ragioni? Tante e sovrapponibili. Da un lato, c’è la sensazione, quasi una certezza, che le urne siano inutili, tanto la democrazia è commissariata, le decisioni passano sulla testa dei cittadini, vengono prese altrove (Bruxelles) e il governo Draghi è il filo-diretto dei poteri forti, bancari, finanziari e lobbistici. Un direttorio tecnocratico che regna su partiti impotenti, deboli, incapaci, senza leader credibili e visione generale delle cose, al di là della mera propaganda e dei ristretti interessi di bottega. Che durano un nanosecondo.
Dall’altro, gli italiani non votano nemmeno per i referendum che, al contrario della politica astratta, dovrebbe riavvicinarli ai temi più diretti e sensibili, in questo caso la giustizia.
Altro punto: i politici dicono una cosa e ne fanno un’altra. Ma queste motivazioni sono le uniche? O gli italiani, chiusi nel loro microcosmo, sono persone che cercano unicamente degli alibi? A giudicare dalle interviste sul perché domenica hanno preferito il mare, emerge un quadro deprimente, che oscilla tra l’egoismo, l’indifferenza e il nichilismo. In sostanza, la conferma che siamo un popolo di fancazzisti, vacanzieri e di “evasori mentali”. E che ci meritiamo ciò che abbiamo.
E’ del resto, un problema storico, atavico, genetico: eternamente oppressi, conquistati, invasi dall’esterno, dagli antichi romani in poi, abbiamo sempre visto il potere, le istituzioni, come oppressione pura, non condivisa; abbiamo sempre visto lo Stato come il mostro che mette le tasse, che ci sfrutta, e che va trattato formalmente in modo ruffiano, opportunistico, e sostanzialmente in modo predatorio, partorendo quello che gli studiosi hanno definito il “familismo amorale”: il primato del privato, ostile al pubblico. Da qui la mancanza di senso del bene comune, della collettività, dell’interesse generale.
Un individualismo di massa, totalmente rafforzato dal mondo parallelo della realtà virtuale che ha offerto certezze e perimetro a tale postura mentale, culturale, esistenziale. Se uno dei valori della “rete-sovrana” è l’universalità e la disintermediazione, il salto obbligato di qualsiasi mediazione, visto che il cittadino che usa Internet, i social, è al tempo stesso lettore e produttore di notizie, il risultato è che non ha più bisogno di chi media tra i fatti e il lettore (i giornalisti), o tra le leggi e il popolo-sovrano (la democrazia rappresentativa). La verità è che l’“uno vale uno” è definitivamente entrato nella nostra testa: una democrazia diretta, in quanto direttamente collegata e finalizzata alle nostre pulsioni: ciò che desideriamo, vogliamo, non vogliamo, ci piace e non ci piace (politica fai da te, vita fai da te, religione fai da te etc). L’eterno like.
Ma una società e una democrazia basata sulla pancia dell’io, muore. E i primi segni si stanno vedendo. Non solo da noi, anche in Francia.
Ora con che faccia ci ergiamo a censori dell’universo o a esportatori di una democrazia che nemmeno noi stiamo usando e funziona? Con che faccia ci indigniamo quando accusano l’Occidente di essere malato?
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