Ciriaco De Mita è morto ad Avellino all’età di 94 anni. È doveroso ricordarlo perché è stato uno degli uomini simbolo della Prima Repubblica. Ma non della Prima Repubblica nella sua fase ascendente, bensì nel suo tramonto e nella sua lunga agonia.
Qui troviamo la contraddizione che costituisce la cifra complessiva del leader democristiano scomparso: da un lato, il desiderio di rinnovamento della vita pubblica italiana e, dall’altro, l’incapacità di realizzarlo. Un destino, sia detto per inciso, che De Mita ha condiviso con Bettino Craxi, co-protagonista, insieme con lui, dell’ultima stagione della repubblica dei partiti, la stagione della centralità del parlamento e del sistema politico bloccato.
Anche il leader socialista voleva la modernizzazione, ma naufragò nella “Milano da bere” e tra la corte dei “nani e delle ballerine”. A sua volta, il leader democristiano voleva la “democrazia compiuta”, ma rimase impantanato tra i signori delle tessere, i veleni correntizi, l’appetito insaziabile delle nuove e vecchie clientele.
Al dunque, la contraddizione di De Mita era la contraddizione di chi, seguendo l’insegnamento di Moro, pur sapeva partorire “pensieri lunghi”, cioè pensieri strategici, rivolti a ricostruire la democrazia italiana su nuove basi, ma di chi, nello stesso tempo, non si dimostrò capace di guardare lontano, nel senso che non riuscì a scorgere le nubi che si addensavano nei cieli italiani, non capendo che bisognava fare in fretta perché la storia non avrebbe concesso deroghe né a lui né al ceto politico di cui era espressione.
Detto in altre parole, gli anni Ottanta, che dovevano essere gli anni del rinnovamento, si rivelarono invece gli anni della paralisi, dell’agitazione senza movimento, dei discorsi magniloquenti senza agganci con la concretezza. Tutte cose in cui De Mita eccelleva. Era capace di parlare per ore, a braccio, disegnando grandi affreschi retorici, che però svanivano a contatto dell’aria, a contatto con la realtà italiana, la realtà di un paese che non riusciva più a seguire le leadership perché troppo immerso nel proprio “particulare”.
Questo conflitto tra ricchezza retorica e miseria pratica fu sarcasticamente stigmatizzato da Gianni Agnelli quando definì De Mita un “intellettuale della Magna Grecia”. C’era, in questa sprezzante espressione dell’Avvocato, anche il disdegno di un “principe” del Nord per un parvenu del Sud, esponente di quell’Italia strapaesana che stava per conquistare le redini del paese. Disdegno magari più estetico-mondano che etico-politico, ma che comunque suggeriva l’idea dell’improbabilità di un De Mita, con quella strana pronuncia in cui risultavano indistinguibili tra loro le consonanti dentali, come possibile statista di una repubblica italiana rinnovata.
Però ci fu un periodo, seppur breve, in cui il Ciriaco di Nusco (il suo paese natale, nell’Avellinese) aveva quasi in mano l’Italia, assommando le cariche, alla fine degli anni Ottanta, poco prima del ritorno di Andreotti e dell’avvento del Caf, di presidente del Consiglio e di segretario della Dc. Sembrava un potere destinato a durare chissà quanto. Invece durò una manciata di mesi.
È però ingiusto addossare tutte le colpe su De Mita. I suoi errori, le sue contraddizioni erano anche il risultato di una certa vischiosità popolare verso il cambiamento, come se a livello di massa ci fosse una resistenza sorda al rinnovamento della politica: in fondo, la repubblica delle clientele stava bene a tutti, o almeno a quei ceti che negli anni Ottanta si riconoscevano nella Dc.
Basterà dire che nelle elezioni politiche del 1983, le prime con De Mita segretario (aveva conquistato l’anno prima la leadership con l’ambizioso programma di costruire il “partito nuovo”), la Democrazia cristiana subì un tracollo storico, perdendo oltre il 6 per cento dei voti. Al “popolo” democristiano, evidentemente, non piaceva il rinnovamento.
E allora il leader che veniva da Nusco, per non perdere posizioni di potere, ingaggiò un rovinoso braccio di ferro con Craxi, una disfida a suon di sottopotere e clientele, ma anche un gioco che si rivelò rovinoso per il debito pubblico: negli Ottanta lievitò inesorabilmente, con i guai che ancora ci affliggono.
Così, i “pensieri lunghi” di De Mita scivolarono fatalmente nella satira, trasformandosi nei famosi “ragionamen(d)i” che divennero cavalli di battaglia per umoristi e cabarettisti.
Di quella satira ridevamo tutti, senza però renderci conto che, di lì a breve, in Italia, non ci sarebbe più stato tanto da ridere.
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