Arriverà anche in Italia il vento “reazionario” partito dagli Usa con la negazione costituzionale del “diritto” di aborto? È quanto si chiedono con angoscia gli intellettuali liberal nostrani dopo la sentenza della Corte suprema americana che venerdì 24 giugno ha escluso l’interruzione volontaria della gravidanza dal novero delle libertà garantite dalla Carta fondamentale dell’ordinamento Usa.
In questi giorni compaiono articoli sempre più allarmati sui giornali mainstream. Lo scrittore Paolo Giordano si dichiara ad esempio timoroso del fatto che la decisione americana possa aver innescato una serie di «reazioni a distanza». Va detto che Giordano non è un tipo particolarmente allegro. Non per niente è l’autore del romanzo “La solitudine dei numeri primi”. Però riesce indubbiamente a cogliere le ansie presenti da qualche giorno nella coscienza collettiva progressista. «Da venerdì –scrive – l’idea dell’aborto è un po’ meno legittima nella mente di tutti noi, e quel senso subliminale d’illegittimità filtrerà rapidamente nella coscienza delle generazioni più giovani». Più sintetica, ma non meno cupa, la scrittrice Chiara Valerio, che parla di «ombra livida che si allunga su di noi».
Toni un po’ inquietanti li usa, a sua volta, Ezio Mauro, il quale evoca lo spettro di una «destra radicale» che combatte i diritti, con «un attacco alla democrazia che va molto al di là dell’aborto, della sentenza, della stessa libertà delle donne. Si chiama sovversione culturale: fermiamola». In che modo? Se non è un incitamento alla guerra civile questo perentorio invito a “fermare” la “destra radicale” (che in realtà, almeno in Italia, si occupa di altre cose) poco ci manca.
Il florilegio delle dichiarazioni allarmate sul “diritto” di aborto in pericolo potrebbe continuare ancora a lungo (in pochi giorni abbiamo registrato un sorta di effetto valanga), ma ci fermiamo qui, perché queste poche citazioni ci danno già l’idea della profondità delle ripercussioni etico-culturali prodotte dalla decisione della Corte suprema americana.
Il punto cruciale è che, con la negazione del “diritto” di aborto, è stato messo in discussione un principio fondante dell’ideologia del progresso, il principio secondo il quale le cosiddette “conquiste civili”, una volta raggiunte, sono intangibili. Tale inviolabilità –secondo i progressisti- deriva dal moto stesso della storia, che procede inesorabilmente verso mete sempre nuove, senza mai negare le conquiste precedenti. Per cui, ad esempio, la “conquista” dell’aborto rappresenta l’antecedente storico-politico necessario di altri traguardi “civili”, come l’eutanasia, i “matrimoni” gay, le adozioni gay, il “diritto” di drogarsi.
La sentenza della Corte suprema americana è la smentita fattuale e culturale di tale pretesa, dal momento che proviene dal massimo organismo giuridico della più potente nazione della Terra, quella nazione che, nel bene e nel male, è considerata, da quasi un secolo, il motore principale della modernizzazione mondiale.
Capirete il corto circuito che da qualche giorno è scoppiato nell’intellighenzia progressista, la quale teme un sorta di effetto domino: dopo la caduta del “diritto” di aborto, sono destinati a cadere anche gli altri “diritti civili”, dai “matrimoni” gay alla droga libera. O, almeno, se non cadranno, perderanno comunque quel marchio di “progresso” che li ha finora (e in buona parte) legittimati.
Comprensibile lo sgomento in cui sono cadute le élite intellettuali di fronte a quello che ai loro occhi appare come un vero e proprio vento reazionario, un vento tale da delegittimarle peraltro nella loro pretesa di stabilire quello che è “progresso” e quello che è invece “oscurantismo” o “regressione”.
Hanno ragione gli intellettuali progressisti ad allarmarsi? Sì, hanno ragione. Ma non perché ci siano una bieca reazione e una ancor più bieca destra radicale in agguato, due entità che sarebbero sempre pronte ad aggredire le “conquiste civili” dell’Occidente. Bensì perché questa decisione sull’aborto segna la sorprendente rivincita dei veri nemici dell’ideologia progressista, cioè la morale naturale e quella che Aldous Huxley chiamava la “filosofia perenne”, l’insieme cioè dei princìpi che in ogni tempo e in ogni luogo sono a fondamento della convivenza umana. I princìpi, tra gli altri, della famiglia naturale e dell’intangibilità della vita. Perché, piaccia o non piaccia, l’aborto rappresenta sempre la soppressione di una vita innocente.
Le motivazioni dei giudici americani sono per la verità tutte interne al costituzionalismo Usa. Ma è evidente che questa loro decisione è il segnale potente di un mutamento del clima storico. Un mutamento che negli Usa è stato propiziato dall’affermazione dei movimenti “Pro Life” e della destra religiosa. Ma che al di là degli States investe un Occidente in crisi demografica e con sempre meno giovani. Nella coscienza comune del nostro emisfero sta probabilmente salendo in superficie la consapevolezza degli errori collettivi commessi dagli anni Settanta in poi, quando cominciò quell’ubriacatura ideologica che nascose a lungo, agli occhi dei più, la vera fisionomia del processo in atto, il volto cioè di un tremendo attacco contro i diritti naturali dell’uomo e della famiglia, a partire dal diritto alla vita degli innocenti e dei più deboli.
È ovviamente presto per dire ciò che accadrà nel prossimo futuro. Ed è naturalmente da attendersi una reazione furiosa (e di lunga durata) dei centri di potere colpiti dalla decisione dei giudici Usa.
Ma una cosa almeno è stata appurata: il percorso del progresso non lo decidono i progressisti.
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