di Aldo Di Lello

«Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato»: così George Orwell descrive in “1984” il meccanismo di uso (e abuso) politico della storia.

In realtà, usare politicamente la storia rappresenta sempre un po’ un abuso, perché i morti andrebbero lasciati in pace. Il passato è il passato, verità scolpita nel tempo.  I suoi protagonisti non possono essere richiamati in servizio per le necessità del presente. È pur vero, d’altra parte, che la politica si fonda e si legittima anche sulla memoria e sull’identità, che sono materiali offerti dal passato. E allora? Allora un po’ di uso politico della storia è necessario, purché non si arrivi a palesi e clamorose forzature oppure si cancellino le sue pagine più scomode. In questo caso si fa abuso della storia e si compiono manipolazioni.

Ma chi stabilisce che cosa è una manipolazione e che cosa non lo è? Non lo stabilisce nessuno. È per questo che la storia è sempre oggetto di furiose dispute politiche. E sarà sempre così. C’è solo chi possiede i sigilli dell’autorità politica e chi no. Oggi i sigilli  li possiede la destra e ciò crea grande agitazione nella sinistra, che ha sempre posseduto il monopolio dell’uso politico della storia e teme di perdere questo vecchio privilegio.

Di uso (e abuso) politico della storia si parla da giorni, da quando cioè il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, s’è richiamato a Dante come «fondatore del pensiero di destra». Per molti s’è trattato di un richiamo illegittimo, un’autentica manipolazione. Addirittura c’è chi ha fatto riferimento alla “cancel culture”,  cioè alla pretesa del movimento “woke” (il movimento degli ”svegliati”) di riscrivere la storia dell’Occidente, determinando con ciò una invasione totale del passato da parte del presente.

È il caso di fare un po’ di chiarezza, fissando alcuni punti fermi. Innanzi tutto il fatto che, nel caso del ministro Sangiuliano, non si può parlare né di uso né di abuso politico della storia, ma di mera provocazione mediatica. E, come spesso accade, le provocazioni di questo tipo producono effetti ben al di là di quelle che potevano essere le intenzioni originarie.

Uno di questi effetti è appunto la discussione sulla legittimità o meno di utilizzare il passato come strumento politico del presente. Questo discorso nasconde oggi in realtà un’angoscia, più profonda, che agita una parte degli intellettuali di sinistra, cioè il timore, come dicevamo prima, che la destra al governo punti a riscrivere la storia del ‘900 italiano e, di conseguenza, a stabilire nuovi criteri di legittimità dei soggetti politici.

Altro che Dante, qui il tema è in realtà sempre lo stesso: la contrapposizione fascismo antifascismo come conflitto che fonda l’identità storica della Repubblica. Le “vestali” dell’antifascismo temono che possa essere apportata una qualche modifica a questa narrazione fondatrice, eventualità ritenuta ideologicamente insostenibile o politicamente disastrosa. Questo timore si riaffaccia da mesi, costantemente, complice anche la singolare coincidenza storica che la prima volta di un/una leader di destra a Palazzo Chigi coincida con il centenario della Marcia su Roma. Di qui la polemica per l’affettuoso richiamo di Ignazio La Russa al padre fondatore del Msi, di qui anche le continue richieste di “abiura” a Giorgia Meloni del passato postfascista.

Se le cose stanno così, allora non è difficile immaginare che le polemiche sul rapporto tra storia e politica continueranno ancora a lungo, almeno finché a capo del governo ci sarà la leader di FdI.

Quanto alla “cancel culture”, è improprio parlare di abuso politico o di manipolazione  della storia, dal momento che si tratta di vera e propria distruzione della storia, in senso rivoluzionario. Il movimento “woke”, che la propugna, punta a un totalitario ribaltamento dei valori del presente in nome delle “minoranze oppresse” e dell’ ”antirazzismo”. La demolizione degli storici “eroi” dell’Occidente (da Cristoforo Colombo ad Abramo Lincoln, fino a Winston Churchill) è perfettamente funzionale alla costruzione di un inedito (e quanto mai pervasivo) egemonismo culturale.

Le cause di questa malattia spirituale sono complesse. Ma, dal momento che parliamo di un movimento diffuso prevalentemente nel mondo anglosassone, è legittimo pensare che ci troviamo di fronte all’esplosione, nel presente, di vecchi sensi di colpa legati all’impero coloniale britannico o allo schiavismo e alle successive discriminazioni razziali che hanno agitato la storia Usa.

Nell’Europa continentale, ci siamo finora salvati da questo morbo in virtù dello spirito hegeliano che innerva la nostra cultura. Come pronipoti di Hegel, di destra o di sinistra, non ci sogneremmo mai di demolire la storia. Della storia discuteremo sempre e appassionatamente, in un’opera di scrittura-riscrittura continua. Della storia avremo sempre e comunque rispetto.

Che il presente abbia sempre bisogno della storia perché è  comunque destinato a diventare, a sua volta, storia è una circostanza che intravide per primo il grande filosofo tedesco quando vide passargli accanto Napoleone a cavallo. «Ho visto l’anima del mondo», scrisse. Il problema è che oggi non possiamo contare né su un Hegel né su un Napoleone. E, se è per questo, neanche su un Dante.

Fonte:

Di BasNews

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